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“Di solito la storia la fa il numero uno, ma non questa volta; questa volta è il numero due, perché certifica il successo delle riutilizzabilità targata Elon Musk”. È così che Roberto Vittori, astronauta, generale, space attaché all’ambasciata d’Italia a Washington con tre esperienze oltre l’atmosfera, descrive la missione “SpaceX Crew 2”, partita ieri da Cape Canaveral, in Florida, e in approdo sulla Stazione spaziale internazionale. A bordo quattro astronauti: il francese Thomas Pesquet, gli americani Robert Shane Kimbrough e Megan McArthur, e il giapponese Akihiko Hoshide. Quattro veterani di viaggi spaziali, ma tutti al debutto su una navicella commerciale, la stessa già utilizzata lo scorso anno dai colleghi Douglas Hurley e Robert Behnken, sospinta da un razzo (Falcon 9) con primo stadio anch’esso riutilizzato. È la rivoluzione di Musk.

Generale, che valore ha questo nuovo lancio di Crew Dragon?

È la storia che, davanti ai nostri occhi, segna la demarcazione tra passato e futuro. È l’era del New Space che diventa realtà. Cambiano i paradigmi e gli schemi. È l’impossibile che diventa non solo possibile, ma anche routine. Nella vita quotidiana sulla Terra, il termine “riutilizzabilità” assume un significato al limite del banale. Nello Spazio, significa invece l’impossibile, abbattendo i costi e rendendo le orbite più accessibili. SpaceX lo ha trasformato in routine.

Una rivoluzione?

Sì. La riutilizzabilità è la vera caratteristica che distingue le tecnologie di Elon Musk da ogni altro attore dello Spazio. È riutilizzabile il Falcon 9, la Crew Dragon e, in prospettiva, la StarShip.

StarShip che si è aggiudicata il contratto della Nasa per riportare l’uomo sulla Luna. La certificazione della linea di Elon Musk?

La cosa che ha sorpreso da parte della Nasa è stata la scelta di uno soltanto dei tre progetti in corsa. La vera decisione era, per l’appunto, tra sottomettersi a SpaceX e cercare di tenere in vita anche delle alternative, che in tutta onestà fanno fatica rispetto all’azienda di Musk. La decisione è ora chiara, così come le sue conseguenze.

Quali?

Da adesso in poi non ci sarà, genericamente, il filo del pensiero statunitense per lo Spazio, ma ci sarà la linea di SpaceX e di Elon Musk.

Cosa comporta questo per un Paese come l’Italia, che ha negli Stati Uniti il suo principale partner spaziale?

L’interlocutore per l’Italia resta, in primis, la Nasa. Il fatto è, però, che la Nasa dipende ora da SpaceX. Il nostro Paese dovrebbe dunque recuperare il tempo perduto e agganciare i rapporti con l’azienda di Musk. In tal senso, non abbiamo sempre fatto bella figura. In un passato più o meno recente, una loro richiesta di offerta non è stata gestita molto brillantemente. I rapporti rimangono però ottimi, sia dal punto di vista personale con i vari attori di SpaceX, sia per le possibilità di collaborazione industriale.

Quali sono queste possibilità in campo industriale per l’Italia?

SpaceX è irraggiungibile e imbattibile, il numero uno per un motivo su tutti: la riutilizzabilità. C’è però qualcosa che noi facciamo che è a loro complementare, qualcosa che ancora non fanno: la logistica, i moduli pressurizzati, la famosa capacità manifatturiera dell’industria spaziale italiana, apprezzata negli Stati Uniti e nel mondo. Chi non ricorda l’elemento di maggior pregio della Stazione spaziale, la famosa cupola, che piaceva addirittura alla Cina? Il 50% dei moduli pressurizzati della Iss è stato fabbricato a Torino. Tutto questo può trovare complementarietà con ciò che fa SpaceX. StarShip, il Falcon 9 e il Falcon Heavy sono lanciatori. Noi possiamo fare l’equivalente del container, e lo possiamo fare molto bene. Lo spunto è questo: renderci cono di quale sia lo scenario statunitense.

Sembra una prospettiva allettante…

Direi di sì. Musk potrebbe aver bisogno di noi per la logistica, ma non aspettiamoci che venga a cercarci. Dobbiamo farci noi parte attrice e proporre strutture di cui ancora non dispone, magari passando per un accordo Nasa-Asi sulla scia di quello del 1998 per i moduli Mplm.

La Russia ha intanto annunciato che lascerà nel 2025 la Iss, l’avamposto orbitante che, come ha lei stesso sperimentato, ha assicurato cooperazione in orbita anche quando sulla Terra i rapporti tra Washington e Mosca erano molto tesi. Come conservare tale esperienza cooperativa?

La Russia è in una fase di profonda riflessione sullo Spazio. Musk, come tipico del suo stile, ha addirittura invitato il presidente Vladimir Putin per un confronto web. Negli ultimi dieci anni, la Russia è stata la spina dorsale del trasporto verso la stazione spaziale internazionale. Oggi è in grande difficoltà a causa della Crew Dragon che, a metà del prezzo dello Soyuz, le crea un problema importante. In questo decennio la partecipazione russa alla Iss si sosteneva grazie ai contratti della Nasa per l’accesso alla stazione. Questo è però il passato, e ora c’è prima di tutto un problema di natura economica per Roscosmos. Anche perché, differentemente dagli Stati Uniti, la Russia non ha allargato lo Spazio ai privati. Perciò, l’abbandono teorico nel 2025 non dev’essere visto come un momento di frattura dei rapporti, ma come conseguenza del fatto che, nel bene o nel male, i privati hanno cambiato la corsa allo Spazio. E lo fanno dagli Stati Uniti.

Ci spieghi meglio.

Negli Stati Uniti, già dalla fine degli anni 60, il Congresso ha posto le condizioni affinché i privati potessero diventare attori protagonisti della corsa allo Spazio. Nessun altro lo ha fatto, né la Russia, né la Cina, né l’Europa. La scelta russa non va interpretata in termini geopolitici, ma come la prova che il Paese non riesce a tenere il passo dei privati americani nell’era del New Space.

Così Elon Musk ha stravolto lo Spazio. Parla Roberto Vittori

La rivoluzione di Elon Musk è nel successo della “riutilizzabilità”, capace di cambiare gli schemi dell’esplorazione spaziale (e creare problemi persino alla Russia). Ce la spiega da Washington Roberto Vittori, astronauta e generale dell’Aeronautica militare. Per l’Italia “ci sono opportunità industriali; noi facciamo qualcosa che SpaceX non fa”

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