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Erdogan, l’uomo del miracolo economico, della liberazione delle donne dal velo, dei diritti civili, della strategica appartenenza alla Nato mutatosi poi in un autocrate spietato che ha fatto della spregiudicatezza il suo marchio di fabbrica; che ha ri-islamizzato il paese nel segno della Fratellanza musulmana e di un sognato orizzonte neo-ottomano; che pur restando nella Nato esibisce un flirt politico-militare, e geopolitico, con la Russia (dal sistema missilistico S-400 all’alleanza in Sira); che si ritira dalla Convenzione di Istanbul del 2011 sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica nel contesto di una sistematica repressione del dissenso interno.

Intendiamoci, Erdogan non ha fatto tutto da solo. Lo hanno aiutato in qualche modo l’opposizione all’ingresso della Turchia nell’Unione europea; la delusione/rabbia per la freddezza dell’Europa al momento del ”tentato colpo di stato” del 2016, e per il successivo rifiuto degli Usa ad estradare l’imam F.Gulen accusato di esserne il mandante; il disimpegno degli Usa in Medio Oriente che ha aperto un invitante spazio d’azione alle ambizioni turche nell’area e dalla ostentata minaccia dei “terroristi” curdi additati da Ankara come sodali del Pkk.

Aggiungiamo la migranto-fobia che ha indotto l’Europa ad offrire ad Erdogan un prezioso potere di ricatto permanente (soldi contro barriera anti-profughi siriani). E sempre l’Europa sorda alla richiesta di aiuto del governo tripolino riconosciuto internazionalmente contro l’incombente minaccia del gen. Haftar, che invece Erdogan ha subito raccolto e subito capitalizzato con l’accordo bilaterale (energetico) sul confine marittimo.
Queste attenuanti vanno ricordate ma lasciano intatto il giudizio su un Erdogan autocrate spietato, spregiudicato, inaffidabile. E abile, indubbiamente. Ne ha fatto anzi una cifra di potere.

Ed è questa sua abilità combinata con il pragmatismo di lungo respiro che ha prevalso tra i suoi alleati/interlocutori occidentali sull’altare della sua appartenenza alla Nato e ha evitato che si oltrepassasse il confine della rottura. Pragmatismo fatto di faticosa mediazione politica, ma anche con qualche misura sanzionatoria, come per i missili russi (Usa Caatsa sez. 231)

Ma c’è del nuovo, oggi. Al di là della Convenzione di Istanbul che gli serve per guadagnarsi il consenso di certi ambienti radicali, c’è che da qualche tempo Erdogan sta lasciando segnali di una qualche sua disponibilità ad abbassare i toni e a tessere di una possibile trama distensiva.

Complice il cambio di guardia alla Casa Bianca e la sequenza delle indicazioni strategiche di Biden fin dalla sua proclamata vittoria elettorale? Certo. Ma un peso non indifferente lo ha esercitato il rischio di pagare a caro prezzo – elezioni del 2023 – una politica interna a dir poco erratica e comunque fallimentare in termini sociali ed economici, con immaginabili risvolti in termini di consenso, e in quest’ottica deve leggersi il ritiro dalla Convenzione di Istanbul.

All’estero deve poi fare i conti con lo scarso favore – per non parlare di ostilità arabo/sunnita – che il forte vento soffiato sulla bandiera della Fratellanza musulmana sempre più intrisa dalla pretesa di farsi riconoscere quale primus inter pares nel mondo islamico, mettendo addirittura in discussione il ruolo di Custode dei luoghi santi dell’Arabia saudita.
Anche il suo partenariato con la Russia sta mostrando la corda a causa dell’antagonismo che lo sottende. E con la Cina Erdogan rischia di scontare la diffidenza di Pechino nei riguardi dei governi imprevedibili.

La tanto vituperata Europa partner economico-commerciale di primo livello rappresenta a ben vedere, anche agli occhi dell’Erdogan di oggi, un ancoraggio insostituibile e se da un lato Ankara continua nella retorica della sfida nel Mediterraneo orientale, dall’altro invita a mettersi attorno al tavolo per trovare una soluzione accettabile sull’insieme delle questioni aperte.

E riduce, di fatto, le sue intemperanze. Per di più esibisce la volontà di ricucire i rapporti con l’Egitto di Al Sissi, il protagonista del colpo di stato contro Mohammed Morsi, allora presidente legittimamente eletto e leader della Fratellanza egiziana nel 2013. L’ha accompagnata con la frase: “Noi siamo determinati a fare della nostra regione un’isola di pace incrementando il numero degli amici e cessando le ostilità”.

Ma ha pure allargato l’orizzonte affermando che “i nostri comuni interessi con gli Usa superano largamente le nostre differenze di opinione ……. il suo governo vuole una relazione che abbia una “prospettiva di lungo termine e sia basato su un’intesa win-win”.

Ecco, questo “win-win” mi sembra la vera chiave di lettura del mutamento che Ankara sta mostrando, laddove esso chiarisce bene la determinazione a non apparire succubo degli Usa e tanto meno dell’Europa.

Biden ha auspicato un riavvicinamento della Turchia con la Ue. Qualche suo membro vi ha dato seguito. Anche il nostro e Draghi bene ha fatto a chiamare Erdogan per riprendere le fila di un dialogo. Proprio per la consapevolezza che il dialogo esso si prospetti tanto complicato quanto ineludibile.

Soprattutto in quel nostro cortile costituito dal Mediterraneo dove i nostri interessi sono prioritari, a partire dalla Libia dove intelligentemente il ministro di Maio è tornato con i colleghi francese e tedesco, a suggello di quel marchio “europeo” di cui vi è tanto bisogno.

E dove il peso dell’Europa può fare la differenza specialmente adesso che quel paese, grazie alla mediazione Onu e la partecipazione attiva dell’Europa, è entrato in una fase tanto nevralgica come quella attuale dove è davvero in gioco la stabilizzazione e il recupero della normalità nella corresponsabilizzazione della popolazione libica in tutte le sue sfaccettature sociali. E dove la Turchia è chiamata ad offrire un contributo lungimirante in cui il win-win sarebbe garantito dalla politica e non dalla forza militare. Con un chiaro avviso a Mosca.

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