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L’ambasciatore degli Stati Uniti a Mosca, John Sullivan, è stato convocato al ministero degli Esteri russo dopo le proteste di sabato. Manifestazioni incitate dal leader della lotta alla corruzione, Alexei Navalny, che hanno visto migliaia di persone scendere in strada in diverse città della Russia per protestare contro il sistema di potere creato da due decenni da Vladimir Putin.

Il tema della convocazione di Sullivan, nominato dall’amministrazione Trump a gennaio dello scorso anno, è l’ingerenza americana in quanto sta succedendo. Ingerenza attorno a cui Mosca ha costruito la narrazione su Navalny come “suggerito” dalla Cia nelle sue attività, e su cui gli Stati Uniti hanno mostrato il fianco con una dichiarazione pubblicata dal dipartimento di Stato domenica, l’indomani delle proteste.

Foggy Bottom ricorda che la Russia non sta rispettando le libertà delle opposizioni, chiede il rilascio di Navalny (arrestato appena rientrato in Russia da Berlino dove era stato curato per l’avvelenamento di agosto), ricorda che gli Stati Uniti lavoreranno con “alleati e partner” affinché i diritti umani vengano preservati in Russia come altrove. Mosca usa la questione per necessità e per spingere la propria narrazione (altrettanto necessaria).

Su Twitter il ministero degli Esteri russo scrive che “l’ipocrisia è uno strumento della democrazia americana”, e inviata Washington a “prendersi cura dei propri problemi”; il tweet è postato con sullo sfondo l’immagine dei tumulti di Capitol Hill del 6 gennaio. Se è vero che, come ricordato su queste colonne da Eleonora Tafuro Ambrosetti dell’Ispi, Putin non può permettersi ingerenze esterne — per necessità legate al mantenimento degli equilibri interni sul potere – allora vale la pena affrontare la questione anche dal lato americano. Sta cambiando qualcosa?

“Il comunicato del Dipartimento di Stato dedicato all’arresto di Navalny e alle limitazioni della libertà di espressione in Russia, divulgato lo scorso 23 gennaio da Ned Price (il portavoce, ndr) ha di fatto archiviato la politica di non ingerenza che era stata un tratto saliente, e molto controverso,  della condotta di Donald Trump e gli aveva procurato notevoli resistenze all’interno degli apparati diplomatici e militari americani”, spiega a Formiche.net Germano Dottori, consigliere scientifico di Limes.

“Il rapporto tra gli Usa e la sovranità nazionale, propria e altrui, era il vero nodo da sciogliere lo scorso 3 novembre, come prova, per altro verso, anche l’immediato ritorno dell’America negli accordi di Parigi e quello nell’Organizzazione Mondiale della Sanità, decretato da Biden il giorno stesso del suo insediamento”, aggiunge Dottori, autore del saggio di successo “La visione di Trump“.

“Trump aveva proposto una forma di autolimitazione degli esercizi di potenza che molti portatori d’interessi hanno respinto. È molto probabile che gli altri temi usati contro Trump, in particolare quello identitario, siano serviti soprattutto a catturare il consenso necessario alla sua defenestrazione. La loro importanza non è trascurabile, è anzi acutamente avvertita dall’opinione pubblica statunitense, ma non è ciò che ha mobilitato i poteri forti contro il magnate newyorkese”, continua.

Per Dottori, tutto confluisce in ogni caso nello schema della grande crisi istituzionale ed economico-sociale descritta recentemente da George Friedman e destinata forse a durare per tutto il decennio: “Ci vorrà quindi tempo per capire se la deviazione sia stata Trump o se invece lo sia il tentativo di Biden di tornare agli indirizzi più tradizionali della politica estera e di sicurezza degli Stati Uniti”.

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