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Adelante, cum juicio. La “maggioranza sudamericana” del governo Conte-bis è destinata a durare più di quanto non raccontino le cronache, dice la politologa dell’Università di Bologna Sofia Ventura. Perché, in fondo, l’asse Pd-Cinque Stelle riflette una corrente ben radicata nella cultura politica del Paese, “il populismo progressista”, di cui Conte “è la perfetta rappresentazione”.

Ventura, e allora la crisi, i rimpasti, le minacce di Matteo Renzi?

Renzi è sempre lo stesso, un giocatore di poker. Sa farlo bene, ma non ha alcuna intenzione di “vedere”. Difficile immaginarlo al di fuori del recinto della maggioranza, a meno che non si profili un cambio di governo senza passare per il voto. Un’ipotesi remota, per ora. Questa maggioranza è più compatta di quanto non sembri.

Perché?

C’è un collante culturale che la aiuta a restare in piedi nonostante un governo immobilista, indeciso, opaco. L’accrocchio Pd-Cinque Stelle trova una sua legittimità nella cultura politica e nell’élite intellettuale italiana. La stessa unione populista-progressista che nel mondo latino ha il suo appeal. Poco importa se questo governo fa cose di destra, o un uso sudamericano delle istituzioni. Questa legittimazione è la sua più forte assicurazione sulla vita.

Insomma, c’è a chi piace. Eppure i sondaggi non sono così clementi.

Ci sono segnali contraddittori. I sondaggi su performance specifiche, dall’economia all’emergenza Covid, non mi sembrano tanto rosei. La popolarità di Conte resta alta, sopra al 50%. È una figura plausibile, credibile non lo so.

Cioè?

Processi decisionali opachi, uso disinvolto delle istituzioni, assenza di trasparenza e dialogo, sostituito da un indottrinamento paternalistico. L’Italia, Paese profondamente latino, può sopportare una maggioranza che, pur essendo oggettivamente inefficiente, ha un imprinting politico-culturale forte, un mix di catto-progressismo e giustizialismo.

Tutti parlano di un partito di Conte, anche nel Pd c’è chi inizia a preoccuparsi. Fantapolitica?

È indubbio che una sua formazione sarebbe un ostacolo per i dem. Un competitor in più che attinge al loro bacino e a quello del Movimento Cinque Stelle. Sarebbe la quintessenza di questa congiuntura populista-progressista.

A una discesa in campo di Mario Draghi ci crede?

Draghi viene continuamente evocato, senza essere interpellato. È un profilo inattaccabile, dubito che voglia prendersi sulle spalle il fardello di una maggioranza simile. Sarebbe sicuramente una garanzia per tutti, l’unica opzione che toglierebbe di mezzo l’argomento del “populismo cattivo” in agguato con il voto anticipato. Se la crisi si trasformasse in disastro, c’è chi, nella finanza e nel mondo industriale, è pronto a dare il suo endorsement.

Raggiunto il semestre bianco il governo può tirare un sospiro di sollievo?

La prassi dice di sì. Superato il prossimo autunno, tra legge di bilancio e semestre bianco a seguire, un ritorno alle urne potrebbe sfumare. Ma otto mesi non sono pochi per questa maggioranza.

La partita per il Quirinale è una garanzia in più?

O un’altra mina, dipende dai punti di vista. In piena emergenza c’è già la fila di principi e principesse pronti a candidarsi per la guida del Colle, non a caso lisciando il pelo al Movimento Cinque Stelle. Questi micro-personalismi sono uno dei grandi mali della politica italiana. Comunque la storia insegna che la partita per il Quirinale si decide all’ultimo miglio. Bisogna arrivarci.

Al centrodestra è partita la gara a chi fa la rivoluzione liberale. Chi è credibile e chi no?

Salvini non è neanche in partita. È allergico al liberalismo, in questi mesi ha mostrato tutta la debolezza della sua leadership. Meloni è più abile, si muove con più coerenza, ma resta a capo di una destra radicale che con il liberalismo e un certo conservatorismo ha ben poco a che vedere.

Allora Berlusconi.

Lui è l’unico che abbia una reminiscenza liberale. Ma, come gli altri, gioca solo per restare in gioco, riuscendoci discretamente. Sono i numeri a inchiodarlo all’angolo. Con il 6% non si fanno grandi rivoluzioni.

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