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Il 21 luglio scorso, al termine di un negoziato estenuante proseguito per quattro giorni e quattro notti, Giuseppe Conte vince la partita della vita. L’Italia si aggiudica la fetta più grande delle risorse europee: ben il 28 percento dei 750 miliardi previsti dal Recovery Fund.

“Il governo è forte: la verità è che l’approvazione di questo piano rafforza l’azione dell’esecutivo” annuncia trionfalmente il premier. E perfino Giorgia Meloni (che di certo non è una che le manda a dire) è costretta a riconoscere il successo del primo ministro: “Si è battuto per contrastare le pretese egoistiche dei Paesi nordici”.

È la consacrazione di una leadership sbocciata all’insegna del camaleontismo: prima professore perfetto “sconosciuto” sprovvisto persino di un account social, poi avvocato del popolo per conto dell’alleanza sovran-populista e infine alfiere dell’Europa capace di rassicurare paternalisticamente gli italiani e di frenare l’avanzata della destra.

Una popolarità suffragata dalle elezioni Regionali di settembre. Nelle urne non soltanto non si concretizza la disfatta che in molti preannunciavano ma la maggioranza giallorossa si scopre perfino più forte.

Così il “contismo”, nuovo fenomeno politico-culturale, raggiunge il suo apogeo. Tuttavia, come ci mostra l’ultima rilevazione Swg, l’acme del consenso potrebbe coincidere con l’inizio della discesa.

Lo scrisse Machiavelli 500 anni fa ma la lezione è più che mai attuale: la fortuna è uno di quei fiumi rovinosi che “quando s’adirano allagano e piani, ruinano gli alberi e gli edifizii”. E l’unico modo che gli uomini hanno a diposizione per proteggersi dalle piroette della sorte è costruire argini e ripari “in modo che, crescendo poi, o egli andrebbano per uno canale, o l’impeto loro non sarebbe né si licenzioso né si dannoso”.

In questo caso la seconda ondata del virus si è abbattuta come un torrente in piena travolgendo previsioni, auspici e promesse. Mentre gli argini costruiti dal governo si sono dimostrati fragili, incapaci di contenere il contagio dilagante.

Così, se a marzo l’esecutivo veniva ampiamente promosso dai cittadini nella gestione della pandemia (voto 6,6), adesso invece riceve una bocciatura alquanto netta (5,4). Un segno evidente che siamo ben lontani dall’effetto “rally ‘round the flag” di primavera, quando il Paese si stringeva attorno al premier.

Lo spettro del rimpasto pende su un esecutivo sempre più fragile, attraversato da molteplici spaccature. Prigioniero dello scontro tra i cosiddetti “rigoristi” che vorrebbero subito ulteriori restrizioni e gli “aperturisti” che preferiscono attendere gli effetti delle misure già in vigore.

Ecco allora che la maggioranza dei cittadini rimprovera al governo di agire sempre in ritardo (58%) ma anche di mettere a repentaglio la tenuta economica del Paese (56%).

A fianco alle critiche, ci sono però delle qualità che gli italiani continuano a riconoscere al governo. In particolare, viene apprezzata la capacità di rendersi conto della situazione (49%) e di assumere decisioni di buon senso (44%).

Per la maggioranza giallorossa la sfida si gioca sul terreno franoso del compromesso tra economia e salute. Ma la sensazione è che si tratti di una coperta troppo corta che per forza di cose lascerà scontenta una parte importante del Paese.

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