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L’anno appena trascorso sembra aver messo in profonda discussione i pilastri della globalizzazione. Con questo termine si era inteso, soprattutto negli anni Novanta, descrivere il mondo post-bipolare nei termini di una progressiva affermazione del modello statunitense, sia in politica sia in economia, basato sulla rappresentanza democratica e sul liberalismo economico capace di collegare paesi, mercati, mondi diversi. Il comune denominatore delle visioni di un mondo non più come un insieme di differenze, ma come un’unica trama unificante, di un villaggio globale sostanzialmente piatto e omologante, era la possibilità di condivisione, o meglio dell’apertura progressiva dei confini.

Tanto che si era ipotizzata, nelle parole di Kenichi Ohmae, anche la fine della Stato nazionale quale attore dominante dello scenario mondiale e della politica internazionale, in virtù del predominio dei mercati e della loro logica ultra-statuale, capace cioè di andare ben oltre le barriere e i muri nazionali. Con l’affermazione delle rotte mondiali e del commercio internazionale – si diceva – la politica avrebbe perso terreno a favore di una logica sempre più globalizzante, in cui i confini avrebbero inevitabilmente perso il loro senso originario. D’altronde, quello stesso periodo era stato inaugurato con un gesto altamente simbolico, l’abbattimento del Muro di Berlino: in quell’atto, di cui abbiamo celebrato solo lo scorso anno il trentesimo anniversario, si era condensato il significato della stessa globalizzazione quale traiettoria ineludibile capace di far venir giù le frontiere inter-nazionali e i confini tra gli Stati.

Tutto l’ultimo trentennio di politica internazionale è stato scandito da questa logica, quasi dimenticando la rilevanza geografica, politica, culturale e, se si vuole, anche antropologica propria dei confini e di ciò che essi hanno sempre rappresentato. Non casualmente, la dialettica politica, in Italia come nel resto d’Europa e del mondo, è stata negli ultimi anni caratterizzata dalla contrapposizione – con tutte le distinzioni che, per sinteticità, qui si trascurano – tra i fautori di un mondo aperto (semplicisticamente: “globalisti”) e i difensori di un ritorno della logica nazionale (“sovranisti”).

Il virus, o meglio la gestione intermittente, disconnessa e altalenante che ha contraddistinto molti Stati, pur con le dovute differenze spesso trascurate dai media e con l’emergenza che c’è stata e continua a esserci, ha messo in crisi le certezze del mondo globale, ribaltando spesso le posizioni che avevamo credute granitiche tra gli “opposti” poli politici mondiali. Le misure di contenimento che a diverse latitudini sono state adottate hanno rappresentato una rivincita di quei confini che erano stati pressoché dimenticati.

Il 2020, più che l’anno del virus, è stato l’anno del ritorno del confine, del muro, della barriera in senso politico internazionale e nella vita di ciascuno di noi.

Nel tentativo – per molti versi vano – di bloccare la diffusione del virus, sono state chiuse le frontiere verso gli altri Stati, si sono verificati controlli marcati all’ingresso delle nazioni, addirittura sono stati eretti confini laddove non erano mai esistiti, tra le regioni, che fino a ieri avevano una valenza meramente amministrativa, assumendo così un significato inedito.

Ancor di più: sono stati controllati con presidi militari i confini tra i comuni, che erano prima blandamente segnati da simbolici cartelli stradali. Non solo: si pensi alle norme relative allo spostamento nel raggio di poche centinaia di metri dalla propria abitazione. In quel caso, si sono erette barriere più o meno immaginarie nel proprio quartiere d’appartenenza. Si era arrivati a considerare, inoltre, le proprie mura domestiche come ulteriori confini, capaci di garantire una sicurezza assai labile, nonostante che – come spesso ha ripetuto il viceministro Pierpaolo Sileri – il 75% dei contagi avvengono proprio dentro casa. L’isolamento domiciliare, cui molti sono stati costretti negli ultimi mesi, infine, altro non è che l’ultima fase, di scala assai più di dettaglio, di questo infinito vortice di muri e confini, eretti o immaginari.

E in tale virulenta e paradossale rivincita dei confini si sono rivoluzionate anche le logiche politiche che avevamo immaginato cristallizzate. Chi ieri si dichiarava aperto al mondo globale e contro ogni confine, spesso oggi è chi si è ritrovato a chiedere ed esaltare la chiusura dei confini. E viceversa. Sono state ribaltate molte delle logiche della politica nazionale e internazionale e, al contempo, sono state minate le fondamenta della globalizzazione.

La democrazia rappresentativa, non solo nella chiusura progressiva dei confini, ma anche nelle chiusure disposte da diversi Stati, nell’applicazione di restrizioni alla libertà individuale e nel perdurante stato di emergenza, corrispondente a un’eccezione schmittiana divenuta spesso norma con decreti che – come molti illustri costituzionalisti hanno messo in rilievo – hanno in parte esautorato i parlamenti, nell’impossibilità di garantire la libertà di lavoro, di istruzione vera (in presenza) è stata nell’ultimo anno messa fortemente in discussione. O, quantomeno, è stata sospesa.

Così come è venuta meno quella libertà di movimento, sul territorio nazionale e nel mondo, che era una prerogativa fondante della globalizzazione. Col suo arresto si è oltretutto interrotto in modo significativo il flusso turistico, che nel nostro caso rappresentava il 13% del Pil italiano e con ripercussioni economiche, sociali e psicologiche (anch’esse, spesso dimenticate dai media) di enorme rilevanza.

Non per il Covid, come spesso si dice, ma per le politiche contenitive adottate da molti Stati (non da tutti, è utile ribadirlo), si sta radicalmente revisionando il mondo, passando da un mondo globalizzato e senza confini a uno deglobalizzato, disunito, spezzato da un’infinità di barriere e muri – individuali e collettivi. Con una scossa sistemica mondiale che vedrà probabilmente uno spostamento del baricentro globale ulteriormente verso Oriente. Si sta revisionando il mondo, le basi concettuali della globalizzazione e del vivere comune, così come le logiche politiche che l’avevano accompagnata o contrastata. E, con esse, sembra configurarsi anche un diverso stile di vita, come molti osservatori vorrebbero – più o meno acriticamente – profilare.

Il mondo che ieri ritenevamo piatto e conoscibile in ogni suo lembo, oggi sembra racchiuso tutto in uno schermo, non solo per via di GoogleMaps. Se la globalizzazione si era aperta con la prima modernità e con i viaggi di scoperta e si era poi cristallizzata con l’abbattimento dei muri, oggi ne viviamo la sua più profonda nemesi: siamo chiusi dentro casa e con le esperienze quotidiane – formative, scolastiche, universitarie, lavorative, di shopping, di ristorazione, etc. – ridotte al pc e ai suoi led accesi, simboli del mondo globalizzato e delle sue infinite contraddizioni.

La questione che si pone, da oggi e per i prossimi mesi, forse anni, è: siamo davvero disposti a ridurre ancora la nostra libertà di movimento, a sacrificare il nostro legame coi luoghi – base essenziale del nostro vivere sociale e simbolo stesso della nostra libertà –, a dematerializzare l’esperienza umana in virtù di una costante paura del virus, che ci porta a vivere – pensando erroneamente di stare al sicuro – sempre più distanti, disuniti e chiusi in noi stessi?

Per quanto ancora?

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