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Situazione decisamente atipica, quella italiana. Sul piano internazionale riconoscimenti come non se ne vedevano da tempo da parte della grande stampa occidentale. Basti, poi, pensare alla nomina di Raffaele Fitto come vice presidente esecutivo della Commissione europea o, ancora più recentemente alle pagelle che hanno accompagnato il giudizio sulle manovre di fine anno dei singoli Paesi.

Qui le sorprese maggiori: l’Italia promossa a pieni voti, con la motivazione che il Piano pluriennale di rientro esteso a sette anni e la bozza della manovra per il 2025 sono entrambi credibili e in linea con le raccomandazioni della Commissione. Tanto più che il necessario contenimento della spesa – parole di Paolo Gentiloni, nella sua veste di commissario-controllore dei conti pubblici dei singoli Paesi europei – non avviene a scapito degli investimenti, a loro volta destinati a salire dal 3,5 al 3,8 per cento, rispetto agli anni precedenti.

Pollice verso, invece, nei confronti della Germania, il cui piano non soddisfa i requisiti del nuovo Patto di stabilità e crescita né in termini di rapporto deficit/Pil né di contenimento del debito. E a pensare che il peggior irrigidimento delle regole del Patto era stato ardentemente voluto da Cristian Lindner, capo del Partito liberale democratico, nonché ministro delle Finanze federali tedesco. Poi cacciato dal governo da Olaf Scholz, con l’accusa infamante di aver anteposto il proprio personale tornaconto agli interessi più generali del Paese.

Stessa sorte nei confronti del secondo Paese frugale per eccellenza: quell’Olanda che non aveva esitato a mettersi di traverso contro ogni tentativo di gestione comune del debito. Anch’essa bocciata a causa di un eccesso di spesa che superava i limiti posti dalle nuove regole del Patto.

Non è andata meglio per l’Austria, anch’essa etichettabile tra i “frugali”. Il suo deficit supererà il tetto del 3 per cento non solo nell’anno in corso, ma nei due anni successivi. E, seppur con motivazioni diverse, giudizio analogo nei confronti della Finlandia e dell’Estonia. Una sorta di legge del contrappasso: visto che l’esame ha premiato i Paesi Med – soprattutto la Spagna che sta vivendo un momento di grande splendore – e condannato i virtuosi di una volta. Coloro che non esitavano a voler applicare ai più discoli, politiche di lacrime e sangue.

Sullo sfondo, infine, il caso francese. La relativa crisi è certificata dagli andamenti degli spread che, in questo mese (novembre 2024), hanno toccato il loro massimo storico degli ultimi 5 anni: quasi 85 punti base rispetto al bund tedesco, con un aumento dall’inizio dell’anno di oltre il 47%. Il Paese vive un malessere che è, al tempo stesso, economico-finanziario e politico. Alla fine dell’anno il deficit previsto dovrebbe risultare pari al 6,2 per cento. Con una prospettiva di tornare al 3 per cento solo nel 2029. Vale a dire ben tre anni dopo l’obiettivo indicato dall’Italia: il 2026. A sua volta, il debito marcia verso il 110 per cento, lungo una traiettoria pericolosamente ascendente. Sarebbe quindi necessaria una manovra di almeno 60 miliardi di euro, sotto forma di taglio alle spese o aumento del carico fiscale. Anche per ridurre l’ingente debito con l’estero: una posizione patrimoniale netta negativa, pari secondo Eurostat (dati fine 2023) al 28,1 % del Pil. Quella italiana è invece positiva per un valore pari al 7% del Pil. In simile circostanze sarebbe necessaria un’intesa con le opposizioni. Ma né Marine Le Pen, né tanto meno Jean-Luc Mélenchon sono disponibili per un simile passo.

Date queste circostanze, l’Europa rischia di risultare decapitata. Dei sei Paesi fondatori restano in piedi solo l’Italia, il Belgio e il Lussemburgo. Con tutto il rispetto per il nostro Paese, un fardello così pesante rischia di risultare insostenibile. Ridimensionato quello che, in passato, era l’asse franco-tedesco, il problema è costruire, pertanto, una leadership, che non può che essere plurale, all’interno della quale l’Italia, insieme alla Spagna, dovrebbe esercitare un ruolo diverso dal passato. Ursula von der Leyen ne sembra consapevole. Il suo lungo lavorio per portare alla vice presidenza esecutiva tanto Raffael Fitto, quanto la spagnola (ugualmente contestata) Teresa Ribera ne è la dimostrazione. Come ne è testimonianza il suo lungo discorso al Parlamento europeo in occasione del voto sulla composizione della Commissione. Non sarà certo un caso se tra i “non togati” citati compaiano solo i nomi di Mario Draghi ed Enrico Letta.

Al centro del suo discorso, l’analisi delle grandi incertezze che caratterizzano la situazione internazionale. La guerra, con i suoi orrori, tanto sul fronte est che sulla sponda sud del Mediterraneo. Un sentimento antioccidentale penetrato anche all’interno delle stesse strutture europee. Una sorta di quinta colonna alimentata dai residui di vecchie culture politiche, e sostenuta dalla tecnologia pervasiva dei nuovi strumenti di comunicazione di massa. Il più delle volte gestiti direttamente dalle postazioni informatiche dei nemici storici dell’Occidente. Un Occidente, va subito aggiunto, che non garantisce come in passato. La transizione americana, con il ritorno di Donald Trump, sarà forse meno traumatica di come si teme. Ma per il momento non è certo rassicurante.

A monte di tutto ciò, infatti, è quel cambiamento di fase che sta caratterizzando la storia di questi ultimi anni. Alla vecchia globalizzazione si sta sostituendo un’economia sempre più dominata dai problemi della sicurezza. Non solo sicurezza militare, ma sicurezza nei commerci, nella disponibilità dei materiali strategici, nella partecipazione alle comune catene globali del valore: opzioni che richiedono nuove relazioni ed investimenti rilevanti per ricostruire mappe in grado di garantire il normale svolgimento degli affari. Quel business as usual che da sempre ha caratterizzato il modo di operare dell’economia mondiale.

Di tutto ciò non c’è grande consapevolezza tra le principali forze politiche, presenti a Bruxelles. Altrimenti i distinguo che hanno accompagnato il varo della Commissione non si sarebbero manifestati. Hanno prevalso, in questi casi, valutazioni anche legittime. Ci mancherebbe! Ma distoniche rispetto alla reale dimensione dei problemi con cui una “vecchia” Europa sarà purtroppo chiamata a misurarsi. Si spiega allora l’incipit del discorso di Ursula von der Leyen ed il suo riferimento al 1989. L’anno che segnò la caduta del muro di Berlino e la fine, per tanti Paesi europei, di quei regimi illiberali che, in precedenza, avevano compresso ogni anelito di libertà. Nonché il richiamo alla “lotta”, agli “eterni sacrifici” che l’Europa ha dovuto sostenere “per preservare la libertà e la democrazia”. La cui difesa, soprattutto oggi, implica un “costo”.

Tanta enfasi, ma nessun artificio retorico. Al contrario il riflesso di una preoccupazione reale che riflette il rischio di una possibile futura solitudine e quello di un possibile assedio da parte di autocrazie decise a far valere ottocentesche rivendicazioni territoriali. Minacce che non basta evocare, ma rispetto alle quali è necessario agire, evitando gli errori passato. Soprattutto sviluppando politiche innovative in grado di rappresentare un deterrente effettivo, rispetto alle possibili minacce.

Tre le principali direttrici su cui operare: colmare lo scarto che tutt’ora esiste tra l’Europa, gli Stati Uniti e la Cina in tema di ricerca tecnologica ed innovazione; rivedere il vecchio “green deal” per coniugare insieme i temi della decarbonizzazione e della competitività industriale, (questi ultimi fin troppo sottovalutatati); puntare su una maggiore sicurezza economica. Una visione, come si può osservare, in cui le vecchie preoccupazioni della stabilità finanziaria, che dal Trattato di Maastricht in poi avevano accompagnato le varie stagioni europee, cedono il passo di fronte ad esigenze nuove: a loro volta conseguenti i mutamenti intervenuti nei grandi equilibri mondiali. Che rischiano di spiazzare completamente l’intero Occidente di fronte agli imperativi della storia.

Il conseguimento di quegli obiettivi richiederà, in ogni caso, “una maggiore spinta in tema di investimenti, di semplificazioni e competenze”. Poter contare su un “budget più semplice, più mirato e più rispondente”, ma soprattutto su “investimenti privati supplementari” in grado di favorire quella grande riconversione economica e finanziaria che il programma, appena evocato, richiede. Ma che difficilmente potrà essere realizzato senza il supporto “di un’Unione Europea del risparmio e dell’investimento” che dovrà essere opportunamente progettata. Una sorta di precondizione, destinata a dare credibilità all’intero programma e a fare da spartiacque tra la politica reale ed effettiva ed il semplice sogno di una notte di inizio inverno.

Messaggio compreso? Le reazioni sono state piuttosto fiacche da parte di politici distratti da tante piccole questioni. I più avveduti, pur non appartenenti a quel mondo, invece, hanno reagito. Così almeno va interpretata la mossa di Andrea Orcel, il capo di Unicredit. La cui scommessa non è solo un risiko bancario, ma il tentativo, in un ambiente bancocentrico come quello europeo, di muoversi in sintonia con le analisi di Ursula von der Leyen. Anche se maturate in forma autonoma e distinta. Saranno rose destinate a fiorire? Lo vedremo. Nel frattempo, tuttavia, evitiamo, di banalizzare il tutto. Orcel sarà pure un “rampante”, come è stato descritto. Ma esistono forse modi diversi per muoversi, con successo, tra le regole di mercato?

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