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Prima la si evocava, ora si tenta persino di provocarla ma senza avere poi il coraggio di fare l’ultimo passo. Il cerino passa di mano in mano, e certo il gioco potrebbe finire male. Ma potrebbe darsi che anche questa volta la crisi di governo non ci sia.

Ieri sera, Ettore Rosato, proprio colui che aveva affermato in un’intervista televisiva che Giuseppe Conte non aveva più la fiducia di Italia Viva, ha fatto una sorta di piccola marcia indietro notando con soddisfazione che qualche apertura da parte del premier sulle richieste dei renziani cominciava ad esserci. L’orizzonte si è poi ancora più rischiarato stamane, dopo l’incontro di “verifica” fra Conte e una folta delegazione del partito a Palazzo Chigi.

Tanto che Teresa Bellanova, che la guidava, ha affermato che “finalmente Conte ha preso atto che le nostre proposte sono assolutamente positive e la task force nel testo che ci è stato mandato ieri sera non c’è più”. Alla riunione, Matteo Renzi non c’era: come tutti i grandi sfidanti, si riserva, dopo aver mandato avanti i suoi, il palcoscenico tutto per sé per la scena finale: quella dell’ “abbraccio” col premier o della definitiva pugnalata. Il senatore di Rignano faceva intanto sapere, via social, che la palla è nelle mani di Conte e non sua o del suo partito.

In ogni caso, la prima fase di “verifica” si è conclusa con gli incontri di oggi (ce ne è stato anche uno, certamente meno problematico per Conte, con Leu). Ci si aggiorna a lunedì, quando i partiti della maggioranza faranno trovare sul tavolo del premier i loro documenti con impressioni e desiderata. Cosa dire a questo punto? Quello che sembra è che, quando Renzi è partito lancia in resta contro Conte, aveva, e solo in parte forse ancora ha, almeno due piani. Un po’ come i vecchi socialdemocratici ottocenteschi del congresso di Erfurt, c’era un “programma massimo” ed uno “minimo”.

Il primo, cioè quello di portare il Pd e i Cinque Stelle a sacrificare Conte ma non la legislatura, sembra naufragato. Renzi, che è per vari motivi (anche di prospettiva) l’anti-Conte, non ha sbagliato a tentare l’azzardo, in verità: sia perché anche nel partito di Nicola Zingaretti e in quello di Beppe Grillo in molti non tollerano più il metodo e i poteri che Conte ha avocato a sé, sia perché il presidente del Consiglio, convinto di poter tirare la corda, aveva maldestramente tentato il colpaccio di far passare (per di giunta alle due di notte!) un testo del Recovery Plan, e soprattutto della sua governance, non discusso con le altre forze e molto pro domo sua.

Sia Zingaretti sia i grillini però non hanno seguito Renzi, forse anche (soprattutto i primi) per non deludere i voleri del Quirinale. È restato però il “programma minimo”: il Piano che l’Italia dovrà presentare a Bruxelles sarà ridiscusso e soprattutto la sua gestione dovrebbe essere “istituzionalizzata” e tolta di mano a tecnici nominati da Conte, o a lui graditi (“cabina di regia” più “task force”).

Su questo programma minimo, Conte si è visto costretto a cedere, ma vorrà forse farlo tanto ma non fino al punto da mettere anche lui qualche “cappello” sul testo finale o da uscirne troppo ridimensionato. L’ipotesi più plausibile è che nei prossimi giorni sarà su questo fronte che si giocherà la partita fra i due contendenti, fra negoziazioni, tatticismi, passi avanti e retromarce più o meno calibrate.

Spostandoci sul terreno dell’interesse nazionale, indipendentemente dalle intenzioni (che contano fino a un certo punto e che comunque non sono in questo frangente certo ideali come i protagonisti vorrebbero far credere), si può dire che la mossa di Renzi ha se non altro reso più “pluralistico” l’attuale sistema di potere italiano. E un potere diviso è, in una prospettiva liberale, comunque meglio di uno che non lo è (“l’uomo solo al comando”). Se da tutto questo bailamme scaturità poi, alla fine, un testo credibile e soprattutto efficace di Piano; beh, su questo, i dubbi restano veramente tanti.

Renzi, l’anti-Conte alla prova della verifica. La bussola di Ocone

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