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L’Etiopia veniva considerata un elemento di equilibrio nella regione, ma ora ci troviamo davanti a quello che pare l’inizio di una guerra civile. Lo scontro con gli indipendentisti del Tigray diventa sempre più preoccupante, avviene in una regione delicata e apre scenari di destabilizzazione profonda.

Formiche.net ne parla con Camillo Casola, research fellow dell’Africa Programme dell’Ispi. “C’è da capire innanzitutto cosa si intenda per stabilità. È vero che l’Etiopia è stata in questi anni sostanzialmente risparmiata da violenze jihadiste, ad esempio, e che nell’ultimo decennio ha sperimentato una crescita economica poderosa (nell’ordine del 9% medio circa), circostanza questa che ha contribuito a dare solidità al modello di sviluppo del paese e alla sua leadership regionale”.

Il premier etiope aveva vinto, non più dello scorso anno il premio Nobel per la Pace, anche perché, insieme alla crescita economica, era stato in grado di spingere diverse riforme interne. Adesso? “È vero che le riforme (in parte) attuate dall’ascesa di Abiy Ahmed al potere, sotto un profilo politico ed economico, hanno restituito alla comunità internazionale l’idea di uno Stato che fosse un punto di riferimento per la stabilità della regione, ma se si guarda agli equilibri interni al paese, ci si rende conto che anche prima dell’attuale intervento militare in Tigray l’Etiopia non era affatto stabile”.

Che attori, e che dinamiche, ci sono in campo? “Le aperture politiche di Abiy hanno, se possibile, accentuato gli elementi di instabilità correlati alle rivendicazioni di élite e gruppi di potere etno-regionali, fornendo loro una più ampia arena di contestazione del potere politico. Solo un anno fa, un tentativo di colpo di Stato nella regione Amhara aveva messo in evidenza alcuni aspetti di fragilità e di instabilità interna, legati, in quel caso (semplificando) alle frustrazioni delle élite amhara verso un governo a guida oromo. E ancora, le tensioni tra le stesse comunità oromo, le spinte per il riconoscimento di nuovi stati regionali (tra le popolazioni sidama nel sud), e per finire il conflitto tra il governo e le élites tigrine espressione del Tplf (Tigray People’s Liberation Front, ndr)”.

Le differenze etniche alla base di questo conflitto? “A ben vedere, il conflitto attuale è solo l’ultima e più evidente manifestazione di tutta una serie di dinamiche di instabilità politica, a base etno-regionale, profondamente radicate nel Paese. In questo caso, l’intervento militare deciso dal primo ministro Abiy in Tigray ha come obiettivo il Tigray People’s Liberation Front, partito espressione dell’élite tigrina che per vent’anni ha guidato il governo di Addis Abeba con Meles Zenawi, trovandosi poi marginalizzato politicamente a seguito dell’ascesa del giovane leader oromo, e giunge al culmine di un’escalation di tensioni: a settembre, il Tplf aveva organizzato elezioni regionali nonostante il divieto del governo (che le aveva rinviate a causa dell’emergenza Covid-19), e aveva accusato Abiy di esercitare illegittimamente il potere, essendo scaduto il mandato elettorale. Episodio scatenante l’intervento militare la presunta aggressione delle forze armate regionali nei confronti di una guarnigione dell’esercito nazionale”.

Qual è il rischio sul piano regionale di queste tensioni che si snodano all’interno di un contesto delicatissimo come quello del Corno d’Africa? “Il rischio concreto è quello di uno spillover regionale, un conflitto che veda il coinvolgimento attivo di attori regionali interessati, per un motivo o per un altro, agli esiti della guerra mossa dal governo di Abiy nei confronti del Tplf.”

C’è uno scenario che riguarda anche l’Eritrea, giusto? “Senza dubbio, l’ipotesi di un intervento dell’Eritrea è più che solida. L’ostacolo principale alla normalizzazione completa delle relazioni tra Etiopia ed Eritrea, dopo la pace di Gedda del 2018, è da molti individuato nel Tigray e nell’ostilità tuttora profonda tra le élite tigrine, protagoniste del conflitto con Asmara tra il 1998 e il 2000, e il regime di Isaias Afewerki. Come il governo centrale etiopico, anche Isaias avrebbe tutto l’interesse a vedere ridimensionato il potere e l’influenza del Tplf nella regione al confine tra Etiopia ed Eritrea. E la destabilizzazione regionale potrebbe venire inoltre dai flussi di rifugiati che il conflitto alimenterebbe, presumibilmente in direzione del vicino (e già fragile) Sudan, attualmente alle prese con una delicata transizione politica”. 

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