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Clima, ambiente, energie rinnovabili sono parole vuote senza numeri, progetti, investimenti. A distanza di cinque anni dalla prima firma, la vera sfida per gli accordi di Parigi sul clima in cui è appena rientrata l’amministrazione americana di Joe Biden è tutta qui, dice Edo Ronchi, ministro per l’Ambiente dal 1996 al 2000 e tra i massimi esperti del settore in Italia. Bene i target, purché vi si adeguino tutti, a partire dalla Cina, che “non ha più l’alibi di Paese in via di sviluppo”. Vale anche per l’Italia alle prese con il Recovery Fund, “metà dei nostri piani sono rifinanziamenti di vecchi progetti”.

Ronchi, cosa non ha funzionato negli accordi di Parigi?

Dovevamo allinearci sulla traiettoria di una riduzione al di sotto dei 2 gradi Celsius, facendo il possibile per non superare 1 grado e mezzo, non ci siamo riusciti. Con il trend del 2019 siamo intorno ai 3,2-3,4 gradi.

Quindi il bilancio non è proprio roseo…

No, ma ci sono segnali positivi, a partire dai target. Una coalizione di 124 Paesi guidata dall’Ue ora punta alla neutralità climatica entro il 2050, e ha aumentato il target di riduzione delle emissioni entro il 2030 rispetto al 1990 dal 40% al 55%.

Biden può dare una svolta?

Biden sta muovendosi a tutto campo grazie agli ordini esecutivi, dalla revisione degli impianti industriali ai veicoli inquinanti fino agli incentivi per le rinnovabili. Poi una conferenza internazionale negli Stati Uniti ad aprile per convincere i Paesi in bilico a usare le tecnologie necessarie alla neutralità climatica. Ci sono e finalmente hanno prezzi competitivi.

Come farà a vincere le resistenze del mondo industriale?

La grande industria americana è molto divisa. Nel 2019 con Trump le emissioni di gas serra sono diminuite, ci sono settori dinamici, soprattutto sulla costa. Penso al mondo Ict che è innovativo e punta su performance ambientali avanzate, ma anche alle rinnovabili, basta guardare al successo delle auto elettriche e alla crescita di Tesla. C’è un’economia low-carbon che inizia a farsi sentire.

Ma anche un mondo che ha paura di questa rivoluzione.

Certo, soprattutto nell’interno. In settori come l’industria dell’auto tradizionale o quella dell’acciaio pesante rimangono forti resistenze. Per vincerle servono misure di compensazione sociale: sussidi, aiuti, conversione in altra occupazione. È pericoloso lasciare indietro i perdenti della transizione.

Il fracking, l’estrazione di gas e petrolio in zone fino a poco tempo fa non esplorate, muove un’intera industria negli Usa. Come si fa a cancellarla?

Ci vorranno anni, non si può interrompere da un giorno all’altro. In alcune zone di proprietà federale sarà messo a punto un piano di tutela che vieta ogni forma di estrazione di idrocarburi. Ma bisogna tenere conto che molte di queste misure dovranno passare dal Congresso. C’è una parte dei democratici che è legata a settori tradizionali dell’economia, come l’agroalimentare, che hanno un grande peso sulle emissioni.

Torniamo a Parigi. La Cina ha davvero rispettato gli accordi?

Gli impegni sulla carta ci sono, i dati non sono proprio rassicuranti. Ci dicono che la Cina fa ancora un uso massiccio di carbone, ne produce più di tutta l’Europa insieme, il 53% del carbone mondiale, e sta aumentando l’emissione di gas serra. Il miglioramento è visibile solo nei valori relativi.

Insomma, quegli accordi non sono proprio equi.

Non condivido. Gli accordi di Parigi indicano un target, la responsabilità è comune e differenziata negli oneri. Era l’unico modo per raggiungere un compromesso, un meccanismo come quello di Kyoto avrebbe portato al fallimento. Bisogna ora adeguare gli Ndc (National determined contributions, ndr) e togliere alla Cina l’alibi di Paese in via di sviluppo. Con quei tassi di crescita non può restare sotto un simile ombrello.

L’Europa come ne è uscita?

È riuscita a maturare un vantaggio rispetto agli Stati Uniti sia in termini di rapporto Pil-emissioni sia nel valore aggiunto del manifatturiero. È la regione che guida il gruppo di Stati che punta al target 0 emissioni nel 2050.

La dipendenza dell’Europa e in particolare della Germania dal gas russo è nel mirino della nuova amministrazione Usa. Esiste una via alternativa?

Il gas americano ormai è competitivo, quello russo ha la comodità della contiguità territoriale e la possibilità di fare dumping sui prezzi. Ad ogni modo se davvero il piano europeo avrà effetto la domanda di gas è destinata a diminuire e l’offerta sarà in eccesso, come già succede al petrolio da quando è iniziata la pandemia. Si tratta di governare bene la transizione.

Il clima è al centro dei fondi europei per la ripresa. L’Italia sta facendo abbastanza?

Il Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza, ndr) è carente, e questa carenza è emersa ora che l’Europa ha pubblicato la guida con i numeri precisi. Bruxelles ci chiede di destinare il 37% di quei fondi a misure per il clima, e di specificare quale impatto avranno. Noi non abbiamo né il numero né la valutazione. E quasi la metà dei fondi che abbiamo previsto sono rifinanziamenti di progetti in essere, non finanziano nulla di nuovo. Altro che Next generation.

 

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