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Esiste un’area geografica che oggi è articolata in tre Stati: Libano, Siria, Iraq. Non è l’unica dove tutto può sembrare nero. In questa area si possono temere scenari peggiori di quello presente e certamente non è ancora l’ora dei piani di pace, purtroppo. Questo è il tempo del dolore, che non sembra avere limiti, un dolore che sembra inghiottire tutto. Ma l’ora dei piani di pace dovrà arrivare, o certamente bisogna sperarlo, senza speranza infatti si seguiterebbe solo a morire. Dunque si deve ritenere che al di là dell’oggi a questo decisivo segmento di mondo arabo levantino serva cercare la speranza.

È certamente complesso decifrare il suggerimento che Walid Joumblatt, il leader druso del Libano, ha dato a Hezbollah: nella sostanza lui gli ha detto, “rinunciate alle armi in base alla risoluzione dell’Onu, la 1559, che ve lo ingiunge, partecipate con noi all’elezione di un capo di Stato condiviso e diventate un partito libanese che partecipa con le sue idee al confronto politico”. Non credo dubitasse che venisse respinto al mittente, anche da quello che oggi è il “portavoce” degli sciiti libanesi, il presidente del Parlamento Nabih Berri. Cosa si proponeva? Un tatticismo per avvicinarsi agli americani, che lo chiedono ma caldeggiano un Presidente avverso ad Hezbollah? Ha ritenuto così di mettere al riparo la sua comunità, la più piccola del Libano attuale? Forse potrebbe rispondere soltanto lui, ma c’è un discorso di prospettiva, diciamo nel tempo lungo, che forse può essere tentato.

Il mondo arabo sta cambiando: un tempo i Paesi del Golfo erano affluenti, economicamente ma non altrimenti. Politica, cultura, complessità sociale, erano il retaggio dell’area oggi sotto attacco, in piena devastazione. Da tempo però anche i principali epicentri del dialogo interreligioso, avviati dopo il trauma del 2001, sono in Qatar, negli Emirati Arabi Uniti, in Arabia Saudita. Gli stessi centri studi e documentazione del Golfo hanno grande rilevanza rispetto al passato. La Santa Sede poi ha recentemente istituito un vicariato per la Penisola Arabica, dove la presenza autoctona di cristiani è molto contenuta, ma non quella numerica, essendo molto numerosa la presenza di immigrati di fede cristiana.

Il grande Levante, cioè Libano, Siria e Iraq, è polverizzato, ma resta il cuore della complessità; la prima linea della riedizione plurale di un mondo che ha bisogno di ripensarsi è e rimane lì. Allora non si possono trascurare i due grandi scenari che si delineano.

Gli Stati del Levante sono da decenni sotto stress, le loro storie moderne che hanno portato al loro “fallimento” sono un mix di colpe: per non ripercorrerle tutte basterà dire che colonialismo, panarabismo e panislamismo vi hanno dato il peggio di sé. La questione palestinese, in tutta la sua gravità, non ha avuto poco ruolo nell’aggravarlo. Poi il khomeinismo. E domani?

Ecco la prima scelta. Al di là delle scelte euro-occidentali, un disimpegno dei paesi del Golfo nei confronti del vasto Levante, un’assenza di visione e di fondi (enormi) necessari a ricostruirlo è certamente plausibile e non potrebbe che condurre a una altrettanto plausibile frammentazione su linee confessionali e tribali. Questo già si vede. Per non dire che si potrebbero verificare anche occupazioni straniere, più o meno lunghe. In ogni caso in questi tre Paesi del Levante, Libano, Siria e Iraq, uno stipendio non basta a comprare un chilo di pace, grosso modo. Gli Stati non hanno funzionato: e quando gli Stati non funzionano, non creano cittadinanza, e così è stato in Iraq, Siria e in Libano dal 1975, il tribalismo diviene l’unica realtà di riferimento, soprattutto quando la cinghia non ha più cosa stringere. Tutto potrebbe aggravarsi rapidamente. Nella disattenzione dei petromonarchi, concentrati su se stessi e i propri immediati interessi, la reazione nel Levante potrebbe essere quella a rinserrasi in spazi chiusi, omogenei anche confessionalmente. Questo potrebbe avere ricadute non solo geografiche, ma anche culturali sulle enormi diaspore siriana, irachena, libanese. Potrebbe essere l’esito di azioni belliche, delle loro conseguenze e di inazioni politico-economiche.

L’altra scelta, quello dell’investimento da parte dei petromonarchi, è possibile? Teoricamente sì. Si tratterebbe nella buona sostanza di ricordarsi di quanto disse papa Francesco ai tempi della pandemia: da una crisi si esce migliori o peggiori, mai uguali. Per uscirne migliori si dovrebbe ricostruire un Levante devastato in una prospettiva federativa, inclusiva. Anche a voler essere egoisti i petromonarchi potrebbero considerare lo spazio di cui parliamo importante per i loro progetti, ad esempio per le pipe-line petrolifere. È qui che anche gli sciiti dovrebbero cercare e trovare il loro ruolo, politico e religioso, quello a cui fa pensare Joumblatt. Per i petromonarchi sarebbe la chance di realizzare quelle agognate infrastrutture verso l’Europa che passerebbero non attraverso entità settarie ostili o amiche, comunità che si chiudono impaurite dalla storia o da quella vicina, ma comunità che riconosciute come tali verrebbero sospinte a unirsi nel nome di un futuro migliore.

Questo riguarderebbe anche i cristiani del Medio Oriente che vivono qui, per questo loro dovrebbero essere un possibile motore di questa visione sia sul territorio che nella diaspora. Queste diaspore oltre che molto numerose sono anche affluenti, in certi casi, compresa quella sciita.

In vista di questa “speranza” (o illusione) c’è una previsione dell’attuale costituzione libanese, gli accordi di pace di Tajef, che appare decisiva: in Libano esiste una Camera, eletta su base confessionale e paritaria tra musulmani e cristiani. La previsione costituzionale oltre a questa ipotizza una seconda Camera, eletta su base partitica, con partiti politici e quindi interconfessionali. L’idea è: tutti le garanzie alle comunità, tutti i diritti agli individui. Potrebbe essere la bussola politica di una qualche forma di Federazione del levante di domani.

La prospettiva si dovrebbe allargare, se condivisa dalle monarchie del Golfo, ad altri teatri. È quello cui ha accennato Gilles Kepel in recenti interviste al riguardo dell’idea di Mohammad bin Salman, che propone uno Stato palestinese accanto a Israele come base di una pace regionale. Ipotesi.

I paesi del Golfo e il futuro del Levante. Il bivio di domani secondo Cristiano

Nella disattenzione dei petromonarchi, concentrati su se stessi e i propri immediati interessi, la reazione nel Levante potrebbe essere quella a rinserrasi in spazi chiusi, omogenei anche confessionalmente. Questo potrebbe avere ricadute non solo geografiche, ma anche culturali sulle enormi diaspore siriana, irachena, libanese. L’analisi di Riccardo Cristiano

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