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La polemica sul Manifesto di Ventotene  è solo un’occasione per “parlare d’altro” a fronte dei problemi che l’Europa di oggi è chiamata ad affrontare. Errori, nel recuperare una vicenda custodita da tempo negli archivi della storia, sono stati commessi da tutte le parti. A cominciare da Giorgia Meloni, i cui commenti, in Aula alla Camera, hanno consentito alle opposizioni di dare corso a quegli autodafé di antifascismo applicato in cui sono soliti esibirsi, perché ormai non sono più  in grado di agire sul terreno della politica.

La premier ha sbagliato per diversi motivi. Innanzi tutto perché le sue parole sul Manifesto non c’entravano nulla con il tema e lo svolgimento del dibattito e quindi si sono rivelate una provocazione a freddo (studiata a tavolino per mettere tutto in caciara?). In secondo luogo, perché nella memoria di un Paese vi sono vicende ed episodi che ne scrivono la storia, anche se alcuni aspetti non reggono la sfida del tempo ma restano prigionieri del presente e si rivelano caduchi.

Gli scolari americani mandano a memoria  il discorso di Abraham Lincoln a Gettysburg. Sarebbe singolare criticare quel capolavoro di oratoria perché il compianto della nazione era dedicato a tutti i caduti, anche a quelli che combattevano nelle file della Confederazione “schiavista” (da noi è proibito ricordare quelli che nella nostra guerra civile caddero in tanti dalla parte sbagliata).

Nell’agiografia del nostro Risorgimento campeggiano le figure di Vittorio Emanuele II, di Cavour, di Garibaldi e di Mazzini, ma quando alla Camera, per reagire alle critiche di chi accusava il governo di aver favorito i terroristi nell’operazione di Sigonella, Bettino Craxi ricordò che l’Apostolo delle genti si era servito nella sua lotta per l’indipendenza di metodi terroristici simili a quelli messi in atto, allora, dai palestinesi, scoppiarono in Aula, in taluni settori, proteste analoghe a quelle recenti dell’on. Fornaro. Tanto che a salvare il governo intervenne la lettera conciliante (“Dear Bettino”) inviata a Craxi da Ronald Reagan pochi giorni dopo. Del resto Cavour diceva di Giuseppe Mazzini: “Se lo prendo lo faccio impiccare’’, tanto che il fondatore della Giovane Italia morì a Pisa (nel 1872 quando l’Italia era già unita) sotto falso nome.

Qualche woke potrebbe far notare che nel discorso di Winston Churchill alla Camera dei Comuni – oltre alla storica frase “Non ci arrenderemo mai” – vi erano dei riferimenti all’Impero e quindi al famigerato colonialismo che oggi in Occidente rimproveriamo a noi stessi. Tutto ciò premesso, Meloni ha sbagliato anche nel giudizio storico-politico del Manifesto, perché quel documento è innovativo anche quando resta invischiato nella chimera del socialismo.

Come ha scritto Alberto Mingardi, Spinelli, Rossi e Colorni “continuano a pensare (e, all’epoca, non erano certo i soli) che il fascismo sia stato l’esito naturale di un’economia capitalistica. Sono consapevoli (e, in questo, erano in più modesta compagnia) della ‘tirannide burocratica’ dei Paesi socialisti’’. In sostanza, vagheggiavano di un socialismo orwelliano, tendenzialmente trockista, nel quale la dottrina della dittatura del partito rivoluzionario viene elisa dal riconoscimento delle libertà democratiche e dalla idea di Stato federale europeo dotato di un Parlamento e di un governo democratico con poteri reali in alcuni settori fondamentali, come economia e politica estera.

In quelle poche pagine – scrive ancora Mingardi –  i tre cercano di quadrare il cerchio fra l’ethos della rivoluzione sociale e la difesa di quelle libertà “borghesi che, lo hanno appreso sulla loro carne viva, non sono solo un fatto “formale”. Meloni, però, non ha contestato solo alcuni passi del Manifesto ma – con qualche ragione – soprattutto l’uso che ne è stato fatto in occasione della manifestazione del 15 Marzo in piazza del Popolo a Roma. Citiamo ancora una volta Alberto Mingardi che scrive: “Chi a vent’anni non si commuove pensando alle circostanze in cui Colorni, Rossi e Spinelli vi misero mano è senza cuore. Ma forse chi a quaranta pensa ancora di avere a che fare con qualcosa di più che con un documento del secolo scorso è senza cervello’’.

In sostanza, l’aver voluto trasformare il Manifesto nella bandiera della manifestazione del 15 marzo è stata una fuga in avanti, inutile ed inopportuna in questa fase storica, perché al di là dell’intenzione dei promotori l’iniziativa ha ottenuto il risultato di contrapporre un sogno, una visione, un auspicio – privo dei presupposti per essere realizzato – alla realtà dell’Unione europea per come è oggi nel momento in cui i suoi organi rappresentativi sono costretti a compiere delle scelte molto gravi e difficili per garantirne la sicurezza.

L’Europa che – al di là del titolo attribuito ai piani – procede a un massiccio piano di riarmo, non viene meno rispetto alla prospettiva del 1941, non abdica al conseguimento di quegli obiettivi, ma assume tutte le misure necessarie nell’attuale fase per mantenere viva la fiamma accesa a Ventotene da tre visionari, figli dei loro tempi e da quelle realtà condizionate, ma capaci di immaginare scenari futuri al di là dei cupi orizzonti che si potevano intravvedere da una isoletta del Tirreno nel lontano 1941.

Ventotene mon amour. Il dibattito sul Manifesto letto da Cazzola

L’Europa che – al di là del titolo attribuito ai piani – procede a un massiccio piano di riarmo, non viene meno rispetto alla prospettiva del 1941, non abdica al conseguimento di quegli obiettivi, ma assume tutte le misure necessarie nell’attuale fase per mantenere viva la fiamma accesa da tre visionari capaci di immaginare scenari futuri al di là dei cupi orizzonti che si potevano intravvedere da una isoletta del Tirreno nel lontano 1941. L’opinione di Giuliano Cazzola

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