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Il 26 dicembre una delegazione di alti funzionari dell’intelligence egiziana è andata in visita ufficiale a Tripoli per la prima volta dopo anni. Gli incontri sì sono svolti anche nell’edificio che ospitava la vecchia ambasciata d’Egitto (non lontano da quella italiana), e voci dicono che la postazione diplomatica sarà riaperta a breve — questo significa che il Cairo sarà tra i pochi Paesi (insieme a Turchia e Italia) ad avere una sede attiva nel Paese. A guidare la missione egiziana è stato Ayman Badi, vice capo del Servizio di intelligence generale, che ha tenuto incontri col vicepremier (e vicepresidente del Consiglio presidenziale), Ahmed Maiteeg, e col ministro dell’Interno, Fathi Bashaga.

Per lungo tempo le relazioni tra il Cairo e Tripoli sono state ai minimi termini, con l’Egitto che ha sostenuto le ambizioni dell’uomo forte della Cirenaica, il capo miliziano Khalifa Haftar, che ha provato a rovesciare il governo Gna che l’Onu ha costruito e instaurato cinque anni fa nella capitale libica. Ma adesso il Cairo cerca un ruolo diverso, più centrale e più potabile a livello internazionale.

Il motivo per cui i funzionari egiziani che hanno viaggiato in Libia erano guidati da Badi è legato al fatto che Abdel Fattah al Sisi ha pensato per il Paese che comanda il compito di primo mediatore. Dopo le minacce di guerra davanti alle azioni militari con cui la Turchia — appoggiando il Gna — ha sconfitto Haftar, e dopo aver capito che il tracciamento delle linee rosse era un interesse mutuo con Ankara (che oltre non può spingersi), questa estate il Cairo ha fatto da cornice (geo)politica al lancio dell’iniziativa di dialogo del presidente del parlamento HoR, Agila Saleh, che con quella aveva provato a sganciarsi dal link con Haftar.

L’iniziativa la chiamano “la proposta del Cairo” dove il luogo geografico dell’annuncio serve a fare ombra formale alla scommessa politica egiziana. La proposta ha avuto seguito e considerazione tra la Comunità internazionale, anche in Italia, perché tutti sperano per la Libia una soluzione pacifica e condivisa ma si hanno poche idee, per questo si esaltano quelle che escono quasi a prescindere dalla bontà. La road map di Saleh aveva già ridato lustro all’Egitto, che tra gli sponsor di Haftar è il più direttamente interessato alla Libia e alla Cirenaica (per continuità geografica e connessioni) ma che per certi periodi ha giocato un ruolo quasi di secondo piano dietro a Emirati Arabi e Russia. L’instabilità lungo uno dei suoi confini, soprattutto se legata alla presenza turca in Tripolitania, per l’Egitto è una condizione insostenibile.

Abbandonata — sebbene non definitivamente in alcuni ambienti — l’idea di usare la forza, il Cairo ha provato a recuperare una posizione centrale sul piano negoziale. Ed è lì che continua a muoversi. Tra le discussioni Cairo-Tripoli costruite negli ultimi mesi già prima dell’incontro di pochi giorni fa, c’è per esempio il meccanismo “5+5”,  che coinvolge cinque alti ufficiali nominati da ciascuna parte ed è uno dei sistemi di contatto più importante per garantire il cessate il fuoco raggiunto.

Tuttavia pensare che l’Ovest libico riconosca nell’Egitto l’interlocutore principale dopo la visita sarebbe ingenuo. D’altronde il sostegno al Gna è composto anche di fazioni collegate alla Fratellanza musulmana che il Cairo considera un’organizzazione terroristica. Gli ufficiali della Tripolitania il giorno prima della visita egiziana avevano ricevuto il ministro della Difesa turco, Hulusi Akar, che aveva annunciato di considerare gli haftariani obiettivi legittimi e che sta gestendo la strutturazione delle basi (permanenti) turche e dei centri di addestramento dei vari reparti del Gna che la Turchia sta organizzando.

Le divisioni restano, e marcate. La scorsa settimana il boss dell’intelligence egiziana, Abbas Kamel, era stato in Cirenaica dove aveva incontrato Saleh, che secondo un programma condiviso anche dall’Onu avrebbe dovuto far parte di un’accoppiata per creare una leadership ad interim con Bashaga (che a novembre era stato al Cairo per cercare un avallo, senza ottimi risultati). Kamel è stato a Tobruk da Saleh, ma anche a Bengasi da Haftar. Anche Badi ha fatto visita al capo miliziano che ultimamente sta recuperando spazi mentre il piano di contatto Onu sta trovando difficoltà.

Un recupero che ha dimensioni competitive con altri attori di prima linea, come la Turchia, e anche sui secondari come l’Italia che cerca da sempre la doppia sponda di dialogo. Un recupero pensato anche per compiacere l’amministrazione statunitense entrante, che avrà meno pazienza nella retorica contro i regimi autoritari, ma che continuerà a usare attori terzi per gestire crisi lontane nella lista delle priorità come la Libia.

 

 

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