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Libano e Israele sembrano intenzionati a mettere fine a una disputata decennale sui confini marittimi attraverso negoziati diplomatici che inizieranno tra un paio di settimane e che potrebbero essere un altro tassello di una più ampia forma di stabilizzazione regionale che passa anche dagli Accordi di Abramo – il riavvio delle relazioni siglato tra lo Stato ebraico e (intanto) Emirati Arabi Uniti e Bahrein. Che il framework, di cui parla il capo del parlamento libanese, non riguarda infatti solo l’accordo diretto con gli israeliani, ma un quadro ben più ampio è chiaro: lo dimostra la dichiarazione del Segretario di Stato statunitense, Mike Pompeo (che degli Accordi di Abramo è l’agente promotore), che parla di un altro “accordo storico” che “offrirà il potenziale per una maggiore stabilità, sicurezza e prosperità per i cittadini di entrambe le nazioni”. Washington sta mediando tra libanesi e israeliani, naturalmente.

Niente di più necessario per il Libano, squarciato da quell’esplosione al porto che ha scoperchiato i mali del Paese: un sistema politico-economico e sociale clientelare e la continua interferenza dall’esterno – tutto legato all’architettura confessionale dello Stato. Beirut è sotto un’impasse politica destinata a prolungarsi per altri mesi. Il premier designato, Mustafa Adib, che ha rinunciato all’incarico per “un governo di missione” ricevuto poche settimane fa (dopo che il vecchio governo è esploso con il porto), perché non ha trovato nella classe politica libanese la volontà di superare le divisioni – e le rendite di posizione legate al potere – e formare l’esecutivo. Una situazione che il presidente francese, Emmanuel Macron, non ha tollerato, Il più attivo dei leader internazionali sulla necessità di recuperare il paese l’ha vista come la rappresentazione plastica dei limiti di Parigi, che fanno diventare infruttuoso il coinvolgimento nella crisi (operazione che a dire il vero si è subito portato dietro malcelati interessi). Per questo il francese si è scagliato contro le forze politiche del Paese.

Su tutte, Hezbollah e Amal – alleato dell’organizzazione politico-militare sciita a cui appartiene il presidente le parlamentare Nadih Berri, colui che parla della bontà dell’intesa con Israele, e che a quanto pare ha remato per far saltare Adib chiedendo per sé e per Hezbollah i dicasteri economici da cui transiteranno i fondi internazionali che aiuteranno il Paese dopo fantomatiche riforme. Se per il Libano l’accordo con Israele – con cui è tecnicamente in guerra dal 1948-49 – rappresenta un’altra via di dimostrarsi affidabile agli occhi della Comunità internazionale, per Tel Aviv il tema è connesso a due questioni tattico-strategiche.

La prima riguarda proprio Hezbollah, con cui gli israeliani hanno un contenzioso aperto dal conflitto del 2006 e che è percepito come una delle principali minacce per la sicurezza nazionale. Hezbollah è connesso ai Pasdaran, che l’hanno armata sfruttando il caos del conflitto siriano chiedendo che quelle armi fossero impiegate prima o poi contro Tel Aviv. L’Iran è invece la questione più strategica per Israele dietro all’accordo con il Libano: un’intesa con Beirut infatti potrebbe veicolare le dinamiche del Paese più distanti da Teheran.

Allargare il quadro significa proiettare l’accordo marittimo israelo-libanese su un dossier delicato: quello del Mediterraneo orientale, acque che bagnano il Levante, sponda su cui si infrange la burrasca greco-turca. Israele ha in quella regione dei reservoir gasiferi di primo rilievo che senza l’accordo con Beirut non possono essere sfruttati. Scoperte che hanno portato lo stato ebraico ad allinearsi al sistema greco-egiziano in apparente opposizione alla Turchia. Ma meno formalmente Tel Aviv e Ankara dialogano eccome – basta vedere ciò che accade nel Nagorno-Karabah, con gli azeri filo-turchi sostentati dalle armi degli israeliani (che anche in questi giorni tesissimi non hanno fatto mancare appoggi logistici a Baku). Stabilizzare almeno in parte il dossier israelo-libanese è dunque faccenda profonda, su cui chiaramente anche gli Stati Uniti – attenti a evitare scossoni e contrastare l’Iran – sono fortemente interessati.

Val la pena a questo punto ricordare che lo sfruttamento di risorse presenti in una fascia di quelle acque contese interessa molto da vicino la Francia, essendo Total capofila di un consorzio internazionale che coinvolge anche la Novak russa e l’Eni. L’azienda di San Donato Milanese rappresenta un pezzo di Italia nella vicenda, che si aggiunge al ruolo centrale che il lavoro del generale Stefano Del Col avrà nei contatti tra libanesi e israeliani, dato che saranno ospitati nella città costiera meridionale di Naqoura, dove si trova il quartier generale della missione Unifil guidata dall’italiano. Non va dimenticato che dalle forze armate potrebbe passare un pezzo importante dell’ampio processo di stabilizzazione del Libano. Collegate agli Usa (per fornitura e training) collaborano con l’Onu e si mantengono smarcate dall’esercito mafioso di Hezbollah (e dunque hanno contatti con Israele): per questo possono essere un ulteriore gancio negoziale.

Oltre i confini marittimi. Perché i negoziati tra Libano e Israele sono importanti

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