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L’Italia, come e più di altri Paesi dell’Europa occidentale, con l’infezione da coronavirus sembra caduta in un grottesco circolo vizioso, dal quale non riesce più ad uscire. Una spirale mortale nella quale sono coinvolti in simile misura la classe politica (di governo, ma anche in larga parte di opposizione), i media, ma anche ampi strati della società civile.

Fatto salvo il comprensibile trauma apportato dall’improvviso picco di mortalità determinato dal coronavirus cinese nella primavera scorsa tra febbraio e aprile, almeno dall’estate in poi le conseguenze determinate dalla paura della malattia, piuttosto che dalla malattia stessa, sulla vita economica, civile, culturale del Paese appaiono assolutamente sproporzionate alla causa.

Come è possibile tenere in ostaggio un’intera società per un virus para-influenzale che attualmente ha un tasso di letalità dello 0,4 per cento sui casi diagnosticati, ma probabilmente molto più basso dal momento che, a detta della stessa Oms e del Consiglio superiore di sanità, i casi “sommersi” potrebbero essere almeno 10 volte quelli emersi? Un virus di cui il 95% dei casi diagnosticati, allo stato attuale, non dà sintomi o ne dà di lievissimi, inferiori a quelli delle influenze stagionali? Un virus i cui casi seri o gravi, ricoverati in terapia intensiva, oggi ammontano a 420 su 79.000 attualmente “positivi”?

Ogni anno in Italia si ammalano di influenza da 2,5 a 9 milioni di persone, e si stima che muoiano di influenza e complicazioni connesse circa 8000 persone: in media 22 al giorno, ma ovviamente concentrate nei mesi invernali e primaverili, per cui in quel periodo si può ipotizzare che le vittime quotidiane siano più di 60. In ogni caso, ampiamente superiori a quelle che attualmente muoiono ogni giorno di Covid, o “con” Covid (20 in media, da luglio ad oggi). Di fatto il Covid è diventata una tra le affezioni virali che si sommeranno a quelle stagionali nei prossimi mesi, forse innalzando un po’ la mortalità, o forse no, perché si sostituirà ad altre.

Di fronte a questi dati, l’unica preoccupazione del governo e delle regioni dovrebbe essere quella di monitorare e prevenire, attraverso il servizio sanitario nazionale, l’andamento dell’infezione sulle fasce di popolazione più esposte: gli ultrasettantenni (86% dei morti finora) affetti da due o più serie patologie pregresse (l’82,8%).

In base a qualsiasi criterio di ragionevolezza e di buon senso appare dunque totalmente incomprensibile il fatto che in questo momento il governo operi ancora in stato di emergenza (unico Paese in Europa), e che continui ad emanare (per giunta attraverso i famigerati Dpcm) restrizioni in ogni campo della vita sociale, considerando la semplice “impennata” dei contagi, nonostante la quasi nulla crescita di casi gravi e mortalità, come una minaccia tanto grave da poter essere contrastata ancora una volta soltanto attraverso politiche di “lockdown”: repressive di molte libertà costituzionali, già molto discutibili dal punto di vista degli effetti sanitari nei mesi scorsi, ma in compenso sicuramente disastrose per l’economia. Già soltanto in base ai provvedimenti di quel periodo, infatti, il Pil nazionale nella più ottimistica delle ipotesi a fine anno crollerà del 10%, la disoccupazione è già lievitata di 470.000 unità – e si prevede che a fine anno superi il milione – , e si contano già quasi 100.000 aziende fallite, con altre che si preparano a seguirle appena giungeranno le scadenze fiscali e scadranno i divieti di licenziamento.

La coazione a far ripiombare l’Italia in uno stato di paralisi e di vero e proprio coma civile rappresenta un esemplare caso di impulso al suicidio collettivo di una nazione. Essa si può spiegare soltanto con un mix letale tra istinto di conservazione del potere da parte di governanti fragili, poveri di legittimazione, e psicosi sociale diffusa: innescata dalla propaganda catastrofista manovrata da quella stessa classe di governo, e attecchita in una società molto anziana, terrorizzata dalla paura del futuro, e in larghe fasce sociali che ritengono (a torto, viste le prevedibili voragini che presto si apriranno nel bilancio pubblico) di essere garantite anche con un Paese “fermo” (dipendenti pubblici, titolari di reddito di cittadinanza, grande imprenditoria assistita). Fasce sociali, a loro volta, esercitano pressione, chiedendo spasmodicamente protezione della loro “nuda vita”, sia sul governo che sull’opposizione, sia sulle istituzioni nazionali che su quelle locali.

Occorre assolutamente spezzare al più presto questa catena mortifera, aggregando un blocco sociale che spinga per contrastare radicalmente la logica rozzamente emergenzialista ancora imperante e far valere gli istinti vitali del Paese, prima che gli effetti deleteri del “regime bio-securitario” travolgano ogni speranza di riscatto: trasformando il sistema produttivo, il terziario, il comparto turistico-alberghiero, la scuola, l’università e la ricerca, l’arte in un cumulo di macerie.

 

 

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