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L’account in farsi del dipartimento di Stato americano ha pubblicato un tweet contente la scritta: “Quarantuno anni di esecuzioni sono sufficienti!”, l’hashtag “No esecuzioni” e l’immagine di una plotone che giustizia delle persone (in realtà quella foto, scattata da Jahangir Razmi, è molto famosa ed è valsa un Pulitzer: riprende l’uccisione a freddo di undici persone il 27 agosto del 1979 all’aeroporto Sanandaj: giustiziati dopo un processo sommario con l’accusa di essere contro la Rivoluzione). La citazione statunitense chiaramente non è casuale, e il riferimento va a Reza Asgari, ex dipendente del ministero della Difesa finito nei giorni scorsi sul patibolo con l’accusa di aver collaborato con la Cia, passando all’intelligence americana informazioni sul segretissimo programma missilistico.

Dietro all’uccisione ordinata dalle autorità c’è un messaggio che Teheran manda agli avversari, soprattutto interni. C’è una sequenza di fatti strani, infatti, iniziata il 26 giugno con le fiamme in un centro in cui si studia il propellente liquido per i missili, culminata (per ora) con l’esplosione del centro assembramento centrifughe della centrale nucleare di Natanz, e continuata con diversi altri episodi. Gli ultimi: il 12 luglio un incendio in un impianto petrolchimico nel Khuzestan e ieri sera, 15 luglio, quando almeno sette barche hanno preso fuoco in un cantiere navale nel porto di Bushehr, nel sud dell’Iran. Coincidenze, forse. Colpa della scarsa manutenzione delle strutture in Iran, possibile. Sabotaggi, probabile.

Nella notte in cui lo stabilimento di Natanz bruciava, il giornalista della BBC-Persian Jiyar Gol ha ricevuto una rivendicazione: un gruppo fino a quel momento sconosciuto, i Ghepardi della patria, annunciava di aver preparato un attacco alla centrale con tanto di video che provava la loro presenza all’interno dell’impianto. Ci sono sospetti che dietro ai Ghepardi ci sia la mano di qualche intelligence straniera, e ovviamente gli indiziati principali sono Stati Uniti e Israele. E dunque: non è la prima volta che davanti a situazioni di crisi la leadership iraniana risponde con aggressività. Recentemente, per esempio, sono state condannate tre persone per aver fomentato le proteste di fine 2019; e prima era stato eliminato un sospetto doppiogiochista accusato di aver passato dettagli sugli spostamenti di Qassem Soleimani agli Usa (il generale dei Pasdaran considerato un eroe è stato eliminato a gennaio da un drone americano, poco fuori l’aeroporto di Baghdad).

Ora, il regime potrebbe essere sotto attacco, ma ha pochi spazi per reagire. Ha una crisi economica da affrontare: c’è un malcontento diffuso tra le tante minoranze, tanto quanto tra i persiani; c’è una crisi economica profonda (il riyal s’è svalutato di sette volte col dollaro rispetto al 2015); c’è una situazione internazionale delicata. L’accordo sul nucleare Jcpoa è stato distrutto dall’uscita unilaterale americana di due anni fa, ma le mosse in violazione controllata decise da Teheran stanno innervosendo gli europei, che non hanno fatto granché per salvaguardarlo. Inoltre a ottobre scade un embargo sugli armamenti convenzionali che però potrebbe essere rinnovato (anche dall’Ue). Il governo iraniano sa che il rischio di reazioni aggressive potrebbe avvelenare la propria posizione. Reagire contro presunti sabotatori interni serve invece a tenere alta la pressione contro chi potrebbe voler approfittare della situazione.

iran teheran

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