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La globalizzazione delle informazioni e delle comunicazioni avrebbe dovuto portare ad u mondo più interconnesso e aperto. Ma proprio come fu infranto il sogno che l’integrazione economica avrebbe portato a una democratizzazione degli Stati autoritari, anche nel campo delle telecomunicazioni continuano appari evidenti segni della necessità di proteggere il nostro mercato dell’informazione e delle comunicazioni se non vogliamo soccombere alla censura e i firewall imposti da regimi come la Repubblica popolare cinese. 

Durante questi mesi di lockdown e smart working, in pochi non abbiamo subito il tormento utile delle riunioni sulla piattaforma Zoom. Ma le preoccupazioni circa la sicurezza della piattaforma con sede negli Stati Uniti e il suo ruolo nella repressione di utenti “dissidenti” crescono rapidamente. 

Il 7 giugno, la piattaforma ha chiuso l’account a pagamento dell’Ong Humanitarian China, un gruppo di eminenti attivisti cinesi con sede negli Stati Uniti dopo un evento Zoom organizzato da Zhou Fengsuo, uno dei leader delle proteste studentesche nel 1989, per commemorare il 31° anniversario del massacro di Piazza Tiananmen il 4 giugno scorso. 

All’evento hanno partecipato circa 250 persone, tra cui anche le madri di studenti uccisi durante la repressione del 1989, organizzatori della veglia a lume di candela di Hong Kong e altri. Un secondo account Zoom appartenente a un attivista democratico, Lee Cheuk Yan, ex politico di Hong Kong e attivista democratico, è stato chiuso alla fine di maggio. Sia Zhou che Lee non hanno ricevute alcuna risposta da Zoom circa la chiusura dei loro account.

A una domanda diretta dalla testata Axios.com, un portavoce di Zoom ha confermato che l’account di Zhou era stato chiuso “per conformità con la legge locale”, affermando che nel frattempo era stato riattivato. “Come qualsiasi aziende globale, dobbiamo rispettare le leggi applicabili nelle giurisdizioni in cui operiamo”, ha spiegato. “Quando si tiene una riunione attraverso diversi Paesi, i partecipanti all’interno di tali Paesi sono tenuti a rispettare le rispettive leggi locali. Il nostro obiettivo è di limitare le nostre azioni a quelle strettamente necessarie per assicurare la conformità alla legge locale, e rivediamo e miglioriamo continuamente il nostro processo su tali questioni. Abbiamo riattivato l’account basato negli Stati Uniti”.

La dichiarazione rende chiaramente il messaggio che Zoom abbia chiuso l’account a causa delle sensibilità cinesi, dove la libera discussione del movimento democratico di Tiananmen del 1989 è tutt’ora vietato.

Zoom ha avuto una crescita stellare durante l’epidemia del coronavirus, passando da 10 milioni di utenti a oltre 300 milioni nel giro di pochi mesi. Ma le preoccupazioni sono cresciute per la sua mancanza di crittografia end-to-end delle sessioni di riunione, il routing del traffico attraverso la Cina, e il fenomeno dello zoombombing dove ospiti non invitati entrano nelle riunioni. 

Il caso citato sopra non è l’unico che mette a repentaglio il lavoro, e persino la vita, di dissidenti politici nel mondo. Il 9 aprile scorso, a Gaza, Hamas ha arrestato l’attivista Rami Aman e alcuni dei suoi colleghi dopo la loro partecipazione in una conferenza Zoom organizzata da attivisti per la pace israeliani. La partecipazione dei giovani di Gaza alla conferenza è stata segnalata su Facebook da una attivista di Amnesty International, innescando commenti rabbiosi sui social media da parte dei palestinesi a Gaza, con molti elogiando l’arresto di Aman. “Tenere qualsiasi attività o contatto con l’occupazione israeliana sotto qualsiasi copertura è un crimine punibile dalla legge ed è un tradimento per il nostro popolo e i suoi sacrifici”, ha detto il portavoce del ministero degli Interni Eyad Al Bozom in una nota.

Sempre ad aprile, il governo di Taiwan ha vietato l’uso ufficiale di Zoom a causa di problemi di sicurezza, mentre le scuole dello Stato di New York, del Senato degli Stati Uniti e del ministero degli Affari esteri tedesco hanno scoraggiato o limitato il suo utilizzo. Ricercatori avevano scoperto che parte del traffico proveniente dall’app di videochiamata passava da Pechino, anche quando tutti i partecipanti alla chiamata Zoom si trovavano fisicamente in Nord America.

La società ha riconosciuto che gran parte dello sviluppo dei suoi prodotti si è basato in Cina e che alcune chiamate Zoom sono state instradate accidentalmente attraverso i server cinesi. Il team del Citizen Lab dell’Università di Toronto ha anche sottolineato che Zoom ha diverse centinaia di dipendenti nella Cina continentale, che “potrebbero anche aprire Zoom alle pressioni delle autorità cinesi”. A maggio, Zoom ha annunciato che non avrebbe più fornito account gratuiti agli utenti cinesi, citando “requisiti normativi”. Per il momento, la società continua a vendere conti a pagamento in Cina. All’inizio di giugno Eric Yuan, amministratore delegato di Zoom, ha dichiarato che la società ha scelto di non crittografare le chiamate gratuite per cooperare con le forze dell’ordine.

Incidenti e dichiarazioni che rendono evidente come in un momento in cui in modo crescente dobbiamo poter fare affidamento a strumenti nuovi di tecnologia, una evoluzione da cui difficilmente si tornerà indietro, urge la creazione di regole condivise almeno tra Paesi democratici che garantiscono la conoscenza attraverso la libera circolazione delle informazioni e delle idee da un lato, e la privacy e la sicurezza degli utenti dell’altro. Non possiamo accettare in nessun modo che la censura e la persecuzione autoritaria, come nei casi sopracitati, ci vengono imposti d’ufficio.

Zoom censura gli account degli attivisti pro Hong Kong. Chissà perché...

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