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In Italia i consumi rimangono stabili. E siccome tutto costa di più, questo significa che si compra meno.

È il fenomeno che Istat approfondisce in modo molto più rigoroso all’interno del report pubblicato il 7 ottobre 2025.

Sono numerosi i temi che meritano un approfondimento.

In primo luogo il rapporto tra spese alimentari e spese non alimentari, che vede queste ultime raggiungere, in media, circa l’81% della spesa totale delle famiglie.

La seconda dimensione di interesse è quella che analizza la differenza di spesa media per specifiche categorie di consumo; nel 2024, ad esempio, con riferimento all’intero stivale, si sono registrate riduzione di consumi per i seguenti comparti: “Succhi di frutta e verdura”, “Altre bevande analcoliche”, “Bevande Alcoliche e tabacchi”, “Abbigliamento e Calzature”, “Abitazione, acqua, elettricità, gas e altri combustibili”, “Salute”, “Informazione e Comunicazione” e “Servizi assicurativi e finanziari”.

Aumentano invece le spese per “Mobili, articoli e servizi della casa” (di circa 5 euro), i trasporti (di circa 7 euro), “Ricreazione, sport e cultura” (di circa 3 euro), quelle legate all’Istruzione (1 euro) e servizi di ristorazione e alloggio (di circa 6 euro).

Nel paniere delle famiglie, il costo più elevato tra le spese non alimentari è quello dell’abitazione che, semplificando, pesa per circa il 45% di tali categorie di spesa. All’ultimo posto invece l’istruzione.

Per dare un’idea, in generale, la casa pesa per circa mille euro, i trasporti circa 300 euro, i servizi di ristorazione e alloggio circa 160 euro, l’istruzione invece 17. Il grande aggregato di ricreazione, sport e cultura, invece pesa 105 euro.

L’analisi dei consumi di questi due ultimi aggregati lascia emergere degli aspetti che sono altrettanto degni di nota.

In particolare, è interessante notare le differenze di spesa che si registrano sulla base dell’occupazione.

I dati, infatti, evidenziano in primo luogo come per queste categorie di spesa i principali consumatori siano gli imprenditori e i liberi professionisti.

Una condizione che soltanto in parte può essere imputata alle differenze di reddito.

Questa categoria, spende circa 220 euro per la macroarea ricreazione, sport e cultura, , contro i circa 170 euro dei dirigenti, fino ad arrivare ai meno di 50 euro spesi da chi è disoccupato (non in cerca né ritirato dal lavoro).

Se questa classifica pare avere una propria valenza logica, la spesa per l’istruzione risulta per alcuni versi, controintuitiva: sebbene il life-long learning rappresenti un tema importante, e sempre più diffuso in ambito lavorativo, sarebbe in ogni caso lecito immaginare che, a spendere di più per la propria istruzione, siano coloro che non hanno un’occupazione.

Un incremento dell’istruzione, infatti, riduce la possibilità di disoccupazione: sempre secondo Istat, nel 2023, il tasso di disoccupazione tra i laureati era pari al 3,6%, tale tasso saliva al 6,2% per i diplomati e al 10,7% per coloro con un titolo di studio più basso.

Nelle famiglie in cui la persona di riferimento è in cerca di occupazione, si spendono mediamente meno di 10 euro per l’istruzione, contro i 70 di ristorazione e alloggio.

Nelle famiglie in cui la persona di riferimento è disoccupato in altra condizione (diversa da ritirato dal lavoro), il rapporto, pur minore, è comunque considerevole: 9,40 euro per l’Istruzione, contro 64,90 euro per ristorazione e alloggio.

In sintesi, nelle famiglie in cui il capofamiglia è in cerca di occupazione si spende per la ristorazione e l’alloggio circa 8 volte di quello che si spende per l’istruzione.

Circa sette volte è invece quello che spendono le famiglie in cui il capofamiglia è in altra condizione. Imprenditori e liberi professionisti, spendono, in rapporto, poco più di 5 volte in più.

Ancora, per la ricreazione, lo sport e la cultura le famiglie di liberi professionisti e imprenditori spendono circa un terzo di quanto spendono per la spesa alimentare; frazione che scende all’ottava parte per coloro che sono in cerca di occupazione e alla nona parte per coloro che sono in altra condizione.

Se da un lato il fattore reddito e la distribuzione dei consumi può avere un ruolo importante su queste differenze, è tuttavia da notare che, per i disoccupati, la spesa per l’informazione e la comunicazione è, in media, 5,3 volte più alta che quella per l’istruzione.

Se dovessimo guardare l’Italia che emerge da queste rilevazioni, non potremmo far altro che immaginare un Paese in cui le famiglie hanno sicuramente dei punti di convergenza, come i consumi per l’alcol e per il tabacco, ma con grandissime differenze in termini di propensione al consumo per quanto riguarda istruzione e cultura.

Di nuovo, guardando alla componente informazione e comunicazione, le famiglie che hanno un consumo più basso spendono il 57% in mero rispetto a coloro che hanno i consumi più alti.

Per ricreazione, sport e cultura tale “taglio” arriva ad essere di quasi l’80%, mentre per l’istruzione, le famiglie che spendono di meno, hanno un consumo che è pari a solo il 6% delle famiglie che spendono di più.

Se si tiene conto delle persone che sono a rischio povertà o esclusione sociale, che nel 2024 rappresentavano il 23,1% della popolazione (vale a dire uno su cinque), le traiettorie che emergono sono sempre più divisive.

Fermo restando il principio innegabile del libero arbitrio, e fermo restando che è una nostra convenzione sociale quella di attribuire a spese come la cultura o l’istruzione un valore etico maggiore rispetto ad altre categorie di spese, come quelle per gli alcolici, questa tendenza a divergere è un dato di fatto.

E un Paese divergente è molto lontano dagli obiettivi che, dalla nostra Costituzione ai principi ONU, tutti dichiarano di perseguire.

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Se dovessimo guardare l’Italia che emerge da queste rilevazioni, non potremmo far altro che immaginare un Paese in cui le famiglie hanno sicuramente dei punti di convergenza, come i consumi per l’alcol e per il tabacco, ma con grandissime differenze in termini di propensione al consumo per quanto riguarda istruzione e cultura. E un Paese divergente è molto lontano dagli obiettivi che, dalla nostra Costituzione ai principi Onu, tutti dichiarano di perseguire. L’analisi di Stefano Monti

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