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Mi sentite? Mi vedete? Domande emblematiche, oltre che pratiche, che hanno riecheggiato in queste settimane di confino domestico obbligato, durante le video conferenze con le innumerevoli piattaforme usate per connettersi con gli interlocutori. Nel corso del 2019, secondo l’osservatorio del Politecnico di Milano, erano 700.000 le persone che svolgevano o sperimentavano il lavoro agile o smart work. In quasi tutti i casi, per uno o due giorni alla settimana. Molti meno in regime di telelavoro fisso, come si definiva già da qualche anno.

Con l’emergenza dovuta alla pandemia da Covid-19 si stima che 8 milioni di persone abbiamo dovuto sperimentare la prosecuzione delle attività dalle loro case. Dopo qualche settimana, già dalla fine di marzo, i media hanno cominciato a parlarne, registrando gradimenti e difficoltà.

Ogni azienda è però diversa, ogni attività ha le sue necessità. Ci sono alcuni aspetti che accomunano tutte le aziende che scelgono il lavoro in modalità smart. Nessuno di questi ha a che fare con un’emergenza sanitaria globale.
Quando parliamo di lavoro agile o smart working dobbiamo sapere cosa lo definisce tale.

La prima caratteristica dello smart working è che è il punto di arrivo di un processo complesso che ha coinvolto la quasi totalità dell’azienda. Si parte da molto lontano, infatti, per arrivare alla modalità di lavoro agile: dalla ridefinizione dei processi, ai sistemi (anche tecnologici) che li monitorano. Ma soprattutto: da un controllo della produzione e uno schema rigido di gestione delle risorse umane, a un coinvolgimento delle persone che compongono l’azienda.

Lo smart working non è un regalo né tantomeno una necessità obbligata da un DPCM, ma un significativo cambio del modello organizzativo: non più presenza ma valorizzazione, non più controllo ma fiducia. Non può esserci lavoro agile in un’azienda dove dominano schemi rigidi di gestione dei processi poiché lo smart work ha alla base un patto di fiducia, una distribuzione della responsabilità e la capacità di riconoscere il merito e l’impegno del lavoro subordinato.

La seconda tappa della lunga strada verso il lavoro agile è la politica di gestione dei dati e delle informazioni, insieme allo sviluppo della gestione digitale di un’azienda. Tutto ciò che concerne la digitalizzazione e la sicurezza informatica è, soprattutto in Italia, un aspetto quasi magico per una parte fin troppo ampia dei comparti produttivi. Un ritardo nazionale a cui contribuiscono molti fattori intrecciati: la mancanza di infrastrutture di connettività adeguate, ma anche un’arrogante trascuratezza rispetto al tema del digitale e della gestione dei dati, su cui anche gli enti e le istituzioni preposte alla sollecitazione di imprese e associazioni mancano spesso di incisività. Risultato sono i crimini informatici che colpiscono le aziende sempre più duramente e frequentemente: avremmo voluto sentire negli ultimi anni le aziende chiedere contributi e aiuti per sostenere il loro percorso di digitalizzazione con la stessa forza con cui oggi le vediamo chiedere sgravi e incentivi per predisporre gli ambienti di lavoro al rientro in massa del personale. Aggiungiamo una nota dolente, che riguarda interi comparti quasi completamente estranei alla digitalizzazione della filiera (ma non all’ingresso di tecnologia in segmenti specifici): ciò che partecipa di un processo integrato tecnologico e digitale è completamente dominato, quindi tracciato. In altre parole: l’informatizzazione impedisce il nero. E questo, per molti aspetti, è il grande fantasma che aleggia minaccioso sulla nostra economia nazionale e sul lavoro.

Infine, alla scelta della modalità di lavoro agile si arriva incontrandosi, con una presa di consapevolezza da entrambe le parti. Non a caso lo smart working è un accordo che viene sottoscritto da datore e lavoratore insieme, in cui confluiscono esigenze personali, coscienza ecologica, necessità di conciliazione dei tempi e, su tutto, un’idea del lavoro che appartiene alla dimensione della persona, che contribuisce al suo benessere, che grazie anche alla tecnologia consente di trovare un equilibrio flessibile che evolve con l’avvicendarsi dei diversi momenti della vita. Allo smart working ci si prepara, fisicamente e psicologicamente, professionalmente e digitalmente.
La situazione di confino domestico cui l’emergenza sanitaria ha coinvolto tutti i settori economici ha, di fatto, instaurato un regime di arresti domiciliari in tutto il paese.

L’Italia è la nazione delle grandi aree senza copertura digitale, della banda intermittente (in pochi luoghi davvero larga, in molti posti così piccola da essere inesistente), con un diffuso disagio abitativo causato da condizioni di affollamento, di edilizia privata vetusta, di situazioni familiari caratterizzate da disparità dei carichi di lavoro in cui le donne pagano ogni giorno il prezzo più alto, in termini di fatica e troppo spesso di violenza.
L’emergenza COVID ha generato una situazione paradossale in cui, nel chiuso delle proprie case, le persone hanno cercato come hanno potuto di far sopravvivere il proprio lavoro.

Certo: aziende e dipendenti si sono ingegnati, regalando al paese un balzo in avanti e una dimostrazione di etica professionale e responsabilità a cui tutti dovremmo dare valore, a partire da tutto ciò che è pubblico: stato e istituzioni territoriali, che dovrebbero pianificare con lungimiranza la crescita delle infrastrutture digitali; gli enti e le rappresentanze, che devono mettere il digitale in cima alle priorità per il sistema-Italia; e infine, i meccanismi di investimento e sostegno per la crescita, che devono investire su imprese in cui il lavoro è compatibile con la vita e con l’ambiente, senza farsi bastare qualche analisi sommaria generata da un contesto eccezionale in cui la costrizione ha dilatato molti aspetti e creato un evidente squilibrio nella pianificazione delle giornate.

Lo spirito di adattamento e la creatività in condizioni di emergenza non hanno nulla a che fare con il lungo percorso che trasforma l’impresa basata sul controllo in un team che premia la produttività. Il lavoro, come ogni altra dimensione della nostra vita, ha dovuto in queste settimane saper sopravvivere nel confino domestico.
Quindi, per favore: non chiamatelo smart working!

Non chiamatelo smart working. Il commento di Bailo (Uiltec)

Di Daniele Bailo

Mi sentite? Mi vedete? Domande emblematiche, oltre che pratiche, che hanno riecheggiato in queste settimane di confino domestico obbligato, durante le video conferenze con le innumerevoli piattaforme usate per connettersi con gli interlocutori. Nel corso del 2019, secondo l’osservatorio del Politecnico di Milano, erano 700.000 le persone che svolgevano o sperimentavano il lavoro agile o smart work. In quasi tutti…

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