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Fornendo background confidenziale sull’attacco israeliano contro l’Iran di questa notte, gli Stati Uniti fanno sapere ai media che per primo il presidente Joe Biden ha lavorato in questi venticinque giorni affinché l’azione condotta dallo stato ebraico fosse “estensiva” ma “proporzionata”, “targeted” e “precisa”, a “basso rischio” per o civili.

L’obiettivo era pensare alla rappresaglia — per il bombardamento subito da Israele il primo di ottobre — in modo che servisse a “scoraggiare ulteriori attacchi contro Israele riducendo al contempo il rischio di un’ulteriore escalation”. In questo che è un evidente tentativo di ricostruzione degli equilibri di deterrenza, non guastava poi fare in modo che l’Iran si ritrovasse con le capacità di azione degradate.

E infatti, dopo una prima ondata che ha colpito i sistemi antiaerei — dimostrando che i caccia israeliani possono attaccare senza essere intercettati dai radar di quelle batterie, e poi distruggerle — ce ne sono state altre due che hanno centrato basi missilistiche e di droni, e centri di produzione.

Le informazioni che questa sarebbe stata la settimana in cui Israele intendeva colpire l’Iran erano troppo concrete per poter essere sbagliate. Le indicazioni a contorno (per esempio le spifferate alla stampa sulla Russia coinvolta a sostegno degli Houthi) funzionavano da contesto per proteggere politicamente la possibilità di risposta, dunque di auto-difesa di Israele, e corroboravano la previsione sull’azione.

Quello che non è noto è però cosa arriverà adesso. Certamente molto dipenderà dalle entità dei danni, e ancora è troppo presto per poter ritenere affidabili le dichiarazioni iraniane — il regime infatti come prima postura minimizza sempre, perché ha la necessità di dimostrarsi non solo forte, ma invincibile (d’altronde non può che essere tale una teocrazia). E poi dipenderà dagli interessi pragmatici, perché ormai è chiaro che attacco e difesa si legano a quelli e non da fattori strategici più ampi.

Perché quanto accaduto nelle scorse ore, e all’inizio di ottobre, e ad aprile e nella serie di azioni sfacciate durante questi tredici mesi che hanno seguito la dichiarazione di guerra di Hamas contro Israele, è ormai evidente. È per buona parte saltato il sistema di deterrenza su cui si basava l’architettura di sicurezza regionale, che seppur traballante aveva tutto sommato funzionato negli ultimi decenni.

L’erosione delle capacità di deterrenza, inclusa per prima quella americana – al punto che l’Iran non ha esitato a colpire Israele nonostante il rafforzamento statunitense nella regione, e viceversa, e ancora prima Hamas, Hezbollah e Houthi hanno rivendicato atti sfrontati e Israele stessa ne ha condotti altrettanti, come il bombardamento con cui ha ucciso Hassan Nasrallah – ciò che appare evidente, si diceva, è il continuo spostamento dello status quo e della concettualizzazione del rischio collegato. Una dinamica per cui chiedersi se la strategia generale non sia stata abbandonata per la tattica dell’interesse momentaneo.

Da sempre in Medio Oriente, linee rosse più o meno tracciate o percepite separano ciò che è possibile da ciò che va evitato, anche in termini di attacchi (o contrattacchi). Ora non solo quell’impalcatura di regole non scritte pare sia venuta meno, ma sono sembrate mancare anche le autorità in grado di farle rispettare (che sia con la forza o con la dissuasione). Basta pensare che Israele colpisce deliberatamente le truppe di peacekeeping dell’Onu e la Russia usa il contesto regionale per colpire l’Occidente (per esempio in Yemen). Il rischio dell’abbandono del traguardo strategico (che per Israele è individuabile nella continuazione di una guerra d’attrito ormai innescata su più fronti, ormai quasi fine a sé stessa) è che l’escalation a un certo punto non riesca a fermarsi e che la deriva porti verso un apparentemente inevitabile scontro totale — dimostrazione ineluttabile che quelle regole sono saltate, che vale tutto, che non c’è più la deterrenza a proteggere gli equilibri.

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