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“Nulla sarà più lo stesso”. Oggi, dopo lo scoppio della pandemia del Covid-19, si sente spesso questa frase. Ma lo shock della crisi che ha bloccato le attività economiche e sociali in buona parte del mondo avviene nel contesto di un processo di cambiamento già in atto, il tramonto del modello dominante della globalizzazione degli ultimi decenni.

Il virus può rappresentare un fattore di accelerazione della trasformazione, ma per Donald Trump rappresenta anche una minaccia immediata: sa che le possibilità di essere rieletto saranno molto basse se l’economia americana non entrerà in una fase di rapida ripresa, permettendogli di tornare a promettere un futuro più forte per l’America.

Joe Biden è partito come un candidato debole, che può essere frenato da numerosi fattori, primo fra tutti essere sulla scena pubblica da decenni. Ha appoggiato gli accordi commerciali come il Nafta, ha votato per la guerra in Iraq e ha una lunga storia politica di oltre quarant’anni, più qualche scandalo che i repubblicani potranno sfruttare.

Di solito, però, la sostanza viene a galla: come Trump è riuscito a cogliere il momento del 2016 e vincere le elezioni sull’onda della rivolta populista, oggi lo scenario favorisce Biden; non perché risponda in modo particolarmente efficace alle istanze che hanno guidato il malcontento degli ultimi anni, ma perché meno elettori saranno disposti a sopportare i difetti e le debolezze di Trump una seconda volta, tanto di più nel mezzo di una grave crisi economica e sociale.

In questo contesto, il presidente ha anche sbagliato la risposta alle proteste a seguito dell’uccisione di George Floyd: il suo limite più evidente è di non riuscire a parlare a tutti e seppur i democratici siano esposti a dei rischi a causa degli eccessi di chi vuole sfruttare il momento per imporre una linea troppo politically correct, rimane il fatto che la maggioranza della popolazione americana riconosce l’ingiustizia contro i neri nella violenza della polizia e crede che sia ora di intraprendere delle azioni per fermare gli abusi.

Per il presidente in carica la sfida è di legare l’uscita dalla pandemia ai suoi temi forti, operazione che ha messo al centro della sua campagna: contrastare la Cina e riprendere il percorso avviato prima della crisi. I cambiamenti iniziati da Donald Trump sono parziali, ma in alcune aree rappresentano un’inversione di rotta rispetto al passato. La rinegoziazione degli accordi commerciali con il Messico e il Canada è avvenuta seguendo l’obiettivo di disincentivare la delocalizzazione degli impianti produttivi fuori dagli Stati Uniti; lo scontro con la Cina, pur suscitando ampie preoccupazioni per la crescita mondiale, ha segnato un cambiamento di direzione, con obiettivi ormai condivisi da buona parte delle istituzioni americane.

Il tema del decoupling con la nuova potenza asiatica è al centro del dibattito, con il tentativo di definire un approccio più realistico dopo le illusioni della globalizzazione. Crescono le pressioni anche per affrontare i problemi della precarietà e delle disuguaglianze. Il Congresso e la Federal reserve hanno dato un’ampia prova di sovranità monetaria, approvando spese e interventi per quasi il 30% del Pil, dimostrando che di fronte all’emergenza il debito pubblico è solo un numero e che la spinta verso una politica industriale e un maggiore ruolo dello Stato potrà solo aumentare.

Gli Stati Uniti ora hanno la possibilità di “fare i compiti a casa”, abbandonando quei concetti neoliberisti che hanno portato alla crisi di questi ultimi anni. In questo senso la presidenza Trump rappresenta una sorta di preludio a quello che dovrà venire dopo, un’opera di rinnovamento politico e istituzionale che permetterà al mondo atlantico di affrontare il futuro da una posizione di forza piuttosto che come un impero in declino, che potrebbe innescare dinamiche pericolose per la pace mondiale.

C’è ancora tempo per altri imprevisti in questo 2020 ma ciò che possiamo dire con certezza è che il modello della globalizzazione come lo abbiamo conosciuto finora è destinato a cambiare.

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