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Era l’unico mancante all’appello, e non ha deluso le aspettative. L’affondo contro la Cina di William Barr, il Procuratore generale degli Stati Uniti, è tra i più duri sferrati dall’amministrazione di Donald Trump.

Dal Michigan, sul palco del Museo presidenziale Gerald Ford a Grand Rapids, il numero uno della Giustizia americana non pronuncia un discorso, ma un’offensiva a tutto campo contro il Partito comunista cinese (Pcc). La Cina, dice, oggi non è un posto diverso “da quello che era a fine anni ’80, con i carri armati pronti a investire i manifestanti”.

Barr, tra i più fedeli collaboratori di Trump, suo strenuo difensore nella battaglia contro il Russiagate, un passato fra le fila della Cia, conferma la netta virata dell’amministrazione verso uno scontro frontale con il governo cinese su tutti i fronti, dal mondo tech alle sanzioni, dal commercio alle tensioni militari.

Dal palco dell’Hudson Institute, due settimane fa, il numero uno dell’Fbi Christopher Wray ha definito la Cina “la più grande minaccia per gli Stati Uniti”. Una dichiarazione definita “disgustosa” dai vertici del Pcc. “Gli ho detto, Chris, farò di tutto per essere più disgustoso”, scherza in apertura Barr.

Il top procuratore elenca uno ad uno i “crimini” di cui la Cina è ritenuta responsabile. “Spionaggio industriale, furto, estorsione, trasferimenti forzati di proprietà intellettuale, crimini cibernetici, manipolazione della moneta, dumping”. Il 60% dei segreti commerciali americani, dice, “è rubato dalla Cina”.

Di tutti, la corsa tecnologica è il fronte più caldo. “Xi ha centralizzato il potere più di Mao, e la Repubblica popolare cinese è impegnata in una aggressiva, orchestrata campagna per sorpassare gli Stati Uniti e prendere il loro posto come potenza egemone tecnologica”.  Al traguardo c’è il controllo della banda ultralarga, il 5G, “abbiamo avvisato dei gravi rischi di permettere a una brutale dittatura di costruire la rete”.

Ma soprattutto l’Intelligenza artificiale, “questo è un fronte meno conosciuto, la Cina sta facendo di tutto per sorpassare gli Usa nel machine learning, i big data”. Barr richiama il rischio di una supply chain dipendente da Pechino, specie nelle cosiddette “terre rare”: “Giocano un ruolo vitale nelle nostre industrie, dall’elettronica ai dispositivi medici fino all’hardware, e oggi gli Stati Uniti vivono una pericolosa dipendenza dalla Cina per questi materiali”.

I “giorni della passività”, annuncia severo, “sono finiti”. L’invettiva del procuratore non lesina passaggi durissimi nei confronti di chi, in America, fa il doppio gioco con la Città Proibita. Barr si cimenta in uno spietato esercizio di name and shame. Accusa i top manager delle aziende tech, “sono i primi target della propaganda del Pcc”.

Le università che, pagate profumatamente, ospitano gli Istituti Confucio, la rete di scuole di lingua cinese sotto il controllo dell’agenzia di Stato Hanban. Nel mirino c’è anche Hollywood. “Si vanta di celebrare la libertà, ogni anno fa grandi discorsi sulla giustizia sociale. Poi censurano i film per venire incontro alle richieste del Pcc. Come in “Doctor Strange” (celebre supereroe della Marvel, ndr), dove ai monaci, inizialmente tibetani, è stata affibbiata una nazionalità fittizia per non perdere un miliardo di spettatori”.

Neanche la Silicon Valley è risparmiata. Barr accende i riflettori sulla nuova legge della sicurezza nazionale cinese a Hong Kong, e sulla promessa di colossi tech come Facebook, Google, Twitter, Zoom di non rispondere alle richieste di compliance del governo cinese sui dati degli utenti. “Vedremo se resteranno di questa idea, lo spero – sospira scettico – se lo faranno, daranno un esempio agli altri. Il business non è l’unica cosa che conta”.

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