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Certo, qualcuno al governo ci deve pur stare. E siccome quello giallo-verde si è sbriciolato in un anno e poco più e a destra non ci sono numeri sufficienti per fare una maggioranza, ecco che l’accordo tra Pd e M5S (più altri) è l’unico possibile in questa legislatura.

Però, superato lo scoglio del voto in Emilia Romagna, una domanda si impone ed è tutta per il Partito Democratico, seconda forza parlamentare a sostegno dell’esecutivo ma in realtà titolare della maggioranza assoluta del “capitale politico” del governo Conte bis.

Una domanda semplice semplice, quasi banale: cosa ci sta a fare il Pd al governo?

Può bastare rispondere con l’incontrovertibile verità di essere l’unico partito italiano in grado di esercitare quella funzione con professionalità, donne e uomini adatti, rete di relazioni internazionali adeguata e significativa penetrazione nei sistemi di potere della nazione (banche, agenzie indipendenti, associazioni di categoria, ordini professionali, magistratura, università, media e mondo della cultura)?

No che non può bastare, anche se è vero che il Pd è l’unico soggetto politico nella condizione appena descritta.

Può bastare essere il partito che esprime il Capo dello Stato, il Presidente del Parlamento Europeo e il Commissario Ue per rendere sostanzialmente “doverosa” la collocazione in maggioranza, non fosse altro che per rassicurare i partner continentali ed i mercati?

No che non può bastare, anche se a livello internazionale il Pd è l’unico in grado di trasmettere stabilità.

Può bastare aver imparato (almeno così sembra) a convivere con un alleato stravagante come il M5S (te lo trovi a fianco quando la sconfitta è certa come in Umbria ed avversario dove puoi vincere come in Emilia Romagna), aver creato un rapporto solido con l’inquilino di Palazzo Chigi (che spesso sembra più in sintonia con Zingaretti che con Di Maio) ed aver fatto buon viso a cattiva sorte anche di fronte allo “strappo” renziano?

No che non può bastare, anche se l’equilibrio di navigati professionisti della politica (da D’Alema a Bettini, da Franceschini a Gualtieri) sta operando con efficacia in vista, tra l’altro, di una “reunion” a sinistra che potrebbe portare al ricongiungimento con Leu.

La domanda ha cittadinanza nonostante tutto questo o, forse, proprio per questo.

Il Pd cioè non può limitarsi ad essere lo strumento di mediazione verso spinte un po’ estreme (si veda alla vicenda della prescrizione o al caso delle concessioni autostradali), perché non si può dare un senso ad una legislatura intestandosi la funzione “buon senso” e basta.

Una legislatura deve essere un progetto, un percorso, una idea dell’Italia. Ciò è vero quando si vince ma, paradossalmente, lo è ancora di più quando si perde. E siccome nel 2018 il Pd ha perso (ma poi è finito al governo sostanzialmente per decisione altrui, di Salvini in primis), ore deve fare uno sforzo, perché i mesi dell’emergenza sono trascorsi.

Nell’estate 2019 il tema era rimediare alla situazione, trovando un modo per rimettere in asse gli equilibri di governo approvando una legge di bilancio spendibile su scala internazionale (ricordo la clausole di salvaguardia da gestire). Adesso però siamo nel nuovo anno e ci sono davanti 40 mesi di legislatura.

Il Pd deve trovare la forza per proporre all’Italia un piano di lavoro, con al centro i temi dell’economia per tentare di risalire la china di un Pil stagnante in modo disastroso da troppo tempo.

Lo deve fare dialogando con Conte, Renzi e il M5S, ma lo può fare appoggiandosi sulla forza indiscutibile che gli deriva dall’essere il vero asse portante del governo.

In alternativa i prossimi tre anni e mezzo al governo saranno solo un’operazione di potere quasi fine a sé stessa, essenzialmente possibile innanzitutto per la debolezza dello schieramento avversario, cioè la destra.

Una destra forte nei voti ma debole, anzi debolissima, nella cultura di governo, nella coesione tra i soggetti che la compongono e nei rapporti internazionali. Si può certamente governare sulle disgrazie altrui, ma raramente conduce a risultati degni di nota.

Ma il Pd che ci sta a fare al governo? Il commento di Arditti

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