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“Non era un generale qualsiasi, e per questo l’uccisione ha un peso enorme. Qassem Soleimani comandava le Quds Force, che si occupano delle operazioni all’estero dei Pasdaran, ma aveva un’importanza all’interno dell’Iran superiore a quella dello stesso capo dei Pasdaran, tecnicamente suo superiore”. Annalisa Perteghella, Iran Desk dell’Ispi, inquadra con questa breve descrizione il perimetro dell’uccisione del generalissimo iraniano, finito sotto i missili di un drone statunitense mentre si muoveva in auto – con altri dirigenti delle milizie irachene che aveva costruito e controllava – nei pressi dell’aeroporto di Baghdad.

Quanto era importante in un’immagine? “Senza troppi giri di parole, Soleimani era il numero due del regime iraniano. Sopra di lui c’era soltanto la Guida Suprema, Al Khamenei. Ovviamente la sostituzione era prevista (e infatti è subito stato nominato un successore, Esmail Qaani), perché la sua morte improvvisa era uno scenario possibile. E l’Iran è molto bravo a rigenerarsi. D’altronde Soleimani non si nascondeva, era un bersaglio molto visibile”. E faceva di questa sua visibilità la forza su cui ha costruito la narrazione. “Per questo – aggiunge Perteghella – credo che ricostruire la sua stessa aurea di carisma sarà molto difficile. Era un personaggio quasi mitologico, con un’esperienza e un gradimento costruito sul campo”.

Cosa potrebbe succedere adesso? “Direi che questa è una major escalation, quasi un punto di svolta. E l’Iran è obbligato a rispondere, perché è una cosa troppo grossa per essere passata sotto traccia”. Ma che tipo di rappresaglia ci dobbiamo aspettare? “Onestamente non credo che sarà una cosa troppo massiccia. Teheran sa che non può agire con troppa forza, anche perché l’eliminazione del generale è un messaggio”.

In che senso? “Il raid è stato un atto che ha ricostituito quelle linee rosse che per qualche tempo gli americani hanno lasciato sforare all’Iran. Mi riferisco alle azioni di questa estate contro le petroliere lungo il Golfo Persico, o l’abbattimento del drone statunitense sopra Hormuz, o l’attacco dallo Yemen contro gli impianti di Saudi Aramco. Questioni su cui Washington è passato sopra, ma poi a distanza, con forza, ha dimostrato a Teheran che ha la capacità di fargli male“.

Ci saranno azioni in paesi terzi? In queste ore molte ambasciate occidentali hanno chiesto ai propri cittadini di lasciare l’Iran per ragioni di sicurezza, per esempio… “Sicuramente paesi come l’Iraq, o gli altri in cui si trovano i militari americani in Medio Oriente, potrebbero essere il terreno in cui si materializzerà la rappresaglia iraniana. O anche Israele”.

La guerra è davvero più vicina? “Non credo: credo in azioni mirate occhio per occhio, ma tutti eviteranno una vera e propria guerra. Il problema è piuttosto che il Jcpoa (l’accordo sul nucleare del 2015 ancora in piedi, anche se in bilico dopo l’uscita americana di maggio 2018. Ndr) e tutti quei contatti avviati con Teheran sono definitivamente morti. Almeno per il momento. E questo anche se qualcosa era ripresa nelle ultime settimane, anche grazie alla mediazione giapponese tra Washington e Repubblica islamica. L’uccisione di Soleimani spezza tutto: perché anche solo per una questione di prestigio interno, ora gli iraniani non possono farsi vedere a trattare con un nemico che ti ha ucciso il numero due”.

Proprio a proposito di Jcpoa, tra pochi giorni inoltre l’Iran comunicherà un nuovo abbandono dei dettami del Deal. “Qualsiasi decisione che doveva essere prevista per il 6 gennaio sarà rivista alla luce di quanto successo. Aspettiamoci l’annuncio dell’aumento dell’arricchimento di uranio oltre il 20 per cento, per esempio, perché il raid contro Soleimani si porterà dietro anche qualcosa del genere”.

Secondo l’analista italiana, il dubbio è se al di là del successo tattico la Casa Bianca abbia una strategia per fare fronte alle conseguenze delle proprie azioni, perché lo scenario più probabile al momento è quello di “una radicalizzazione del panorama politico iraniano (e a febbraio ci saranno le elezioni parlamentari) a svantaggio della popolazione che ha creduto nel cambiamento, oltre che un’ulteriore destabilizzazione regionale” — e in tutto questo “l’Europa, oltre a dirsi preoccupata, dovrebbe cominciare a pensare a come fare fronte a tutto questo”.

 

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