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Che il potere di Mohammed bin Salman, l’erede al trono saudita, vivesse una dicotomia interna era piuttosto noto da molto tempo: apprezzato da una base spessa di cittadini, quelli della fascia d’età che va dai 20 ai 35 anni e che compone la maggioranza della popolazione saudita, piuttosto inviso dal vecchio establishment. La demografia è una forza travolgente, ma in un sistema come il regno saudita dove i meccanismi di controllo dello Stato (inteso qui anche nella componente che si prolunga sul lato economico del potere) hanno un loro peso.

Che l’attacco missilistico del 14 settembre contro i due impianti petroliferi potesse essere usato da quei critici come un vettore per veicolare il loro “risentimento” c’era da aspettarselo. Su questo la Reuters ha un’esclusiva che non è una rivelazione: diversi membri dell’élite saudita – diplomatici, businessman, membri scontenti per come vanno le cose della folta famiglia reale – dicono ai giornalisti dell’agenzia stampa che in tanti non hanno “nessuna fiducia” in MbS. “Perché non è stato in grado di difenderci?” è il claim dei critici, che usano lo sciame missilistico che ha colpito i due sistemi produttivi dell’Aramco come un forza d’attacco del covo di vespe che intende logorare l’energia dell’erede al trono.

La forza di bin Salman sta nell’aver promesso ai giovani sauditi un nuovo patto sociale, annunciando aperture che nell’ottica della rigidità saudita assumono un senso rivoluzionario – l’allentamento sulla guardiania, la guida alle donne, l’alleggerimento dei visti, ma anche la promessa di differenziare l’economia dal mondo del petrolio. Una visione futuristica del paese che va sotto il nome di “Vision 2030”, su cui MbS si è obbligato davanti ai sudditi, chiedendo in cambio mani libere sulla gestione del potere interno. Una gestione complicata, come dimostra anche l’articolo della Reuters. Quella forza è anche la sua debolezza, perché mette in difficoltà il vecchio sistema.

Non è una questione personale, dice una delle fonti, ma che riguarda la nostra patria: spiega ai giornalisti che se bin Salman ha annunciato di voler combattere l’influenza dell’Iran nella regione, e poi subisce un attacco pesantissimo riconducibile all’Iran, allora la questione è proprio nella sua capacità di fare il leader, di “garantire la sicurezza” del paese. È un argomento facile: il bombardamento subito ad Abqaiq e Khurais è stato una ferita profonda che ha messo in ginocchio, dimezzandola, la produzione di greggio saudita, la forza che ha reso il regno un attore economico (e politico) internazionale. Contemporaneamente ha dimostrato che i costosi apparati militari di Riad non funzionano, o che chi dovrebbe non è in grado di farli funzionare.

Le accuse si mescolano al piano di bin Salman di privatizzare la Saudi Aramco, il gigante petrolifero statale, via da cui passa la differenziazione che auspica l’erede. La critica tocca l’intimo del potere di MbS, che per costruirselo ha scombussolato l’intero apparato di difesa e sicurezza del regno, ora tutto sotto il controllo dei suoi più intimi e fedeli alleati. Chi ha parlato con Reuters l’ha fatto sotto estreme garanzie di anonimato, perché il processo di controllo che bin Salman ha messo in piedi non è stato indolore: il repulisti c’è stato, passato come operazione anti-corruzione, ed è costato caro a diversi gerarchi del sistema politico-economico-dinastico che ha incrostato Riad e Jeddah per decenni. Operazioni di pulizia contro il vecchio potere partite da almeno quattro anni, su cui MbS ha anche dovuto abbozzare e mediare perché comprende di non poter estremizzare tutte le situazioni.

Bin Salman era evidentemente preparato all’attacco dei critici, lo dimostra la difesa preventiva alzata durante l’ultima intervista televisiva concessa, andata in onda sull’americana CBS domenica scorsa: l’Arabia Saudita è un grande Paese, e i suoi nemici sono vasti. “È difficile coprire tutto questo in modo completo”. Secondo le ricostruzioni più attendibili, l’attacco sarebbe stato condotto dall’interno del territorio saudita dai miliziani Houthi, i ribelli yemeniti che hanno rovesciato il governo di Sanaa e ormai controllano lo Yemen e parte della provincia saudita di Narjan, e contro cui Riad è in guerra da anni. Azione condotta in coordinamento con l’Iran, che ha fornito la tecnologia militare necessaria; ma adesso, anche alle luce di certe critiche arrivate alla diffusione internazionale via Reuters, viene da chiedersi se c’è stato qualche altro genere di aiuto dall’interno. Qualcuno che voleva usare l’evento per attaccare MbS e dimostrare che il suo potere è debole, che non è in grado di governare Riad. Speculazioni, chiaramente.

Pochi giorni fa, l’esercito saudita e le forze che combattono per suo conto in Yemen, hanno subito una sconfitta pesantissima in Yemen – con centinaia di uomini fatti prigionieri dagli Houthi – che pesa anche questo sul conto di MbS. L’erede al trono è stato l’ideatore dell’intervento per difendere la stabilità yemenita, da ministro della Difesa, pensandolo come un elemento con cui avrebbe testato la fedeltà di alcuni alleati. Era un passaggio per certi versi necessario, perché bin Salman voleva creare attorno a Riad una forza compatta per contrastare l’Iran e controllare la regione. Un piano sostenuto completamente dalle amministrazioni americane che si sono succedute nel frattempo; un intervento che doveva essere breve, rapido e deciso, che si è invece rivelato come un Vietnam saudita (e anche per questo il partner principale, gli Emirati, si sono sganciati). È un altro terreno che i critici usano per attaccare MbS, chiaramente.

 

Chi (e perché) usa il colpo iraniano al petrolio per attaccare MbS

Che il potere di Mohammed bin Salman, l'erede al trono saudita, vivesse una dicotomia interna era piuttosto noto da molto tempo: apprezzato da una base spessa di cittadini, quelli della fascia d'età che va dai 20 ai 35 anni e che compone la maggioranza della popolazione saudita, piuttosto inviso dal vecchio establishment. La demografia è una forza travolgente, ma in un…

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