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L’inserimento della Cina tra gli argomenti del summit Nato in programma a Londra è “una prima assoluta” che segnala l’attenzione americana nei confronti di Pechino, ritenuta da Washington “una minaccia globale”.
A sottolinearlo è l’ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci – presidente dell’Istituto affari internazionali (Iai), già rappresentante permanente dell’Italia presso l’Ue – che in una conversazione con Formiche.net evidenzia gli allarmi statunitensi, le divisioni europee, la scomposta reazione cinese su Hong Kong e rilancia il bisogno di un coordinamento continentale per “essere più efficaci e credibili” nelle richieste alla Repubblica Popolare.

Ambasciatore, c’è anche la Cina nell’agenda del summit Nato a Londra. Che cosa significa?

Che si parli di Cina in un vertice Nato è una prima assoluta, non mi risulta che ci siano precedenti di questo tipo. Il senso è chiaro: l’amministrazione Trump è impegnata in una offensiva ad ampio spettro per convincere gli alleati che Pechino costituisce una minaccia globale per diversi motivi: gli squilibri commerciali, la competizione sulle tecnologie emergenti fino alle questioni di sicurezza.

Che ruolo potrebbe avere l’Alleanza Atlantica in tutto ciò?

Vedo un ruolo possibile per la Nato in relazione ai negoziati sul disarmo. Come noto, gli Usa hanno deciso di ritirarsi dal Trattato Inf perché ritengono che la Russia lo stia violando, ma anche perché vorrebbero coinvolgere anche la Cina in un nuovo accordo sulla limitazione dei missili con testate nucleari. Su questo specifico punto ritengo che sia utile una discussione in sede Nato. Il confronto su altri aspetti del contenzioso sino-americano rischierebbe invece di essere divisivo perché gli europei hanno una percezione diversa da quella americana della presunta minaccia cinese.

Perché?

In Europa si condividono alcune preoccupazioni americane (sugli squilibri commerciali, sulla protezione degli investimenti esteri, sulla protezione della proprietà intellettuale). Ma non si è ancora giunti al punto di ritenere la Cina come una minaccia alla nostra sicurezza. Anche se siamo consapevoli che la Cina, ad esempio in Africa, utilizza lo strumento di soft power della penetrazione economica e degli investmenti per affermare anche una presenza politica. In Europa per il momento ogni Paese privilegia un rapporto diretto con Pechino e fa i suoi affari con la Cina. Ed entro certi limiti, non vi è nulla di sbagliato. Ma se riuscissimo a definire una linea comune potremmo essere più efficaci e credibili nelle nostre richieste alla Cina. E potremmo ugualmente dialogare da una posizione di maggiore forza con i nostri alleati americani. Un esempio su tutti: siamo stati gli unici ad aderire formalmente alla Belt and Road Initiative – la nuova Via della Seta – ma abbiamo raccolto molto meno di altri Paesi europei in termini di scambi commerciali e investimenti.

Quali sono gli altri fonti aperti con la Cina?

Senza dubbio uno dei più caldi è quello delle telecomunicazioni, ovvero il 5G. Sulle nuove reti il pressing americano non accenna a diminuire e penso che è quantomeno necessario ascoltare le argomentazioni di Washington. Ma sarebbe ugualmente necessario coordinare fra europei la nostra posizione sul 5G. Se è vero che quella tecnologia apre spazi per intrusioni mirate ad attività di spionaggio e alla sottrazione di know-how, allora è bene che i vari governi europei si accordino su che rapporti avere con Pechino, e che poi ne parlino con l’alleato americano.

Gli Usa continuano a porre anche un tema riguardante il rispetto dei diritti umani da parte del Partito Comunista Cinese, in particolare a Hong Kong, sul quale recentemente Pechino ha protestato per alcune prese di posizione di parlamentari italiani. Che cosa ne pensa?

Cominciamo col dire che penso che il nostro parlamento sia pienamente libero di ascoltare la voce del dissenso a Hong Kong, come ha fatto con un collegamento video con il giovane leader delle proteste, Joshua Wong. Allo stesso tempo trovo esagerata la reazione della Ambasciata cinese in Italia dopo questo episodio. È evidente che da parte cinese c’è una difficoltà nel comprendere come funziona la democrazia in Occidente. Questo resta un punto di dissenso tra noi, e le autorità italiane hanno fatto bene a ribadirlo. Detto ciò non ritengo che che ci siano le condizioni perché gli europei adottino sanzioni contro Pechino come ha fatto il Congresso americano approvando qualche giorno una apposita legge.

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