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Le immagini che circolano grazie ai media internazionali hanno mostrato lunghe code ai seggi: Hong Kong è andata al voto in mezzo a cinque mesi pesantissimi, quelli delle proteste diventate guerriglia. Si eleggono i rappresentanti per i diciotto distretti locali, ma il tema di fondo dietro alle elezioni è tutt’altro che limitato ad affari distrettuali.

Sono le uniche votazioni a suffragio universale in tutta la Cina, e chi è andato pacificamente alle urne lo ha fatto anche cercando di dimostrare che il Porto Profumato è questo che vuole. Democrazia, richiesta enorme quanto probabilmente vana. Le manifestazioni contro la legge sull’estradizione — passaggio normativo laterale, ma che dimostrava come la cinesizzazione dell’ex colonia britannica seguisse ritmi spinti (da Pechino) — si sono trasformate in una richiesta, seppure informale, di libertà democratiche.

Le stesse che il segretario del Partito comunista cinese, il capo dello stato Xi Jinping, non potrà mai accettare. Accordarle è troppo rischioso. Impossibile concedere certi spazi — sebbene all’interno di uno schema di non totale indipendenza — ad una delle Cine. Per dire: cosa ne sarebbe poi di Taiwan?

La posizione è ferma: le dimostrazioni hongkonghesi sono “rivolte”, facilitate da nemici stranieri, i manifestanti “vicini al terrorismo”, i loro leader “separatisti” antagonisti della Cina. Uno di questi, Joshua Wong, rappresentante tra i più noti del partito Demosisto, è stato l’unico escluso dalle elezioni di oggi. La Cina gli ha anche proibito una visita in Italia perché temeva che potesse avere spazi per raccontare la situazione nel suo Paese e spiega le ragioni delle proteste a una platea che dovrebbe essere il bacino culturale di certi valori (e il governo italiano, come su altre vicende, ha deciso di non toccar palla: è rimasto a guardare).

In un Paese dove il governatore locale è scelto da un collegio di saggi deciso da Pechino, dunque dal Partito, “quello di oggi è un test sul consenso per la protesta (anche quella violenta) o al contrario per lo status quo con invadente abbraccio cinese”, spiega dal posto Guido Santevecchi, corrispondente dalla Cina del CorSera che in questi giorni sta coprendo direttamente le proteste.

La propaganda cinese è al lavoro. I media di Stato hanno chiesto di votare “pro-establishment”, ma indirettamente danno il senso di quello che molti a Hong Kong detestano: un potere esterno, forte e pressante, che impone le proprie regole partendo dall’alto. In parti del Politecnico intanto sono entrate le telecamere: mostrano immagini di un campo di battaglia. Per giorni alcuni studenti hanno tenuto le posizioni contro l’assedio della polizia. Poco più di due dozzine sono ancora là, asserragliati.

I soliti cannoni propagandistici di Pechino hanno scritto che quei giovani, colpiti dai getti d’acqua degli idranti della polizia dopo la resa e a terra, coperti per il freddo, erano stati trovati in condizioni di ipotermia a causa dell’uso di droghe: “Non c’è da stupirsi che fossero così pazzi e coraggiosi, perché erano drogati”. È un’altra delle tante immagini che segnano la distanza tra la realtà honkonghese e la narrazione spinta da Pechino.

(Foto: Twitter, @HongKongFP, May James)

 

Voto e proteste. Un test per il consenso ad Hong Kong

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