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Maurizio Molinari, su Repubblica di ieri, ha fatto bene a spiegare all’opinione pubblica che i recenti attacchi subiti (via cercapersone e radio) da migliaia di miliziani dell’organizzazione terroristica Hezbollah indicano importanti novità nelle politiche di sicurezza nazionale – finora note soltanto agli addetti ai lavori. A questo proposito, segnalo, tra i tanti contributi in materia, un articolo scritto nel 2018 dal professor Greg Teverton, già presidente del National Intelligence Council degli Stati Uniti dal 2014 al 2017.

In cosa consistono queste novità? La sostanza è semplice da spiegare quanto difficile e complessa da mettere in pratica. Per contrastare le minacce ibride provenienti da attori ostili (statali e non), servono organizzazioni in grado di pianificare operazioni di intelligence con caratteristiche altrettanto ibride. Come sottolineato da vari report della Central Intelligence Agency (qui un esempio), la rivoluzione tecnologica ha infatti eroso i tradizionali confini tra interno ed esterno, pubblico e privato, e soprattutto tra signals intelligence e human intelligence, comparti tradizionalmente separati, ai quali nelle condizioni attuali è richiesta, viceversa, una convergenza strategica e operativa inedita.

A questo proposito, mi limito a sottolineare due aspetti. Il primo è relativo alla dimensione cyber. Numerosi addetti ai lavori continuano a parlare semplicemente di “quinto dominio” senza tener conto dei limiti intrinseci di questo termine. Una definizione certamente utile per i ricercatori e i tecnici che si occupano di sicurezza informatica e delle telecomunicazioni, ma che non coglie l’impatto più rilevante della rivoluzione digitale, che ha mutato profondamente la realtà in cui viviamo.

Il cyberspazio, infatti, non si presenta soltanto come un singolo dominio; esso si caratterizza come un tessuto connettivo che unisce trasversalmente gli altri domini. In altri termini, si può affermare che la dimensione digitale è una sorta di “sistema nervoso centrale” caratterizzato da due capacità fondamentali per le attività di intelligence: è in grado di comunicare, connettere, elaborare e memorizzare miriadi di reti, dati, informazioni e oggetti di ogni tipo; inoltre, può gestire in autonomia processi complessi in ambito industriale, sanitario, militare, eccetera.

Al netto del digital divide, gran parte delle società contemporanee è caratterizzata da processi di digitalizzazione pervasivi più o meno avanzati sotto il profilo tecnologico. Questi ultimi presentano innumerevoli funzioni fisiologiche di grandissima utilità sociale, ma al tempo stesso comportano numerose patologie potenziali, non ultime le sindromi di digital addiction.

Sotto il profilo delle minacce, si possono osservare numerose vulnerabilità strutturali, oggi incrementate dall’avvento della cosiddetta intelligenza artificiale generativa. Tutti i dati (parole, immagini, video) possono essere falsificati e manipolati molto più facilmente rispetto al passato. Appositi software, così come reti di automazione, possono favorire obiettivi di sabotaggio o deception a vantaggio di organizzazioni terroristiche, criminali e/o regimi autoritari. Ovviamente, gli stessi mezzi possono essere utilizzati – come dimostra il caso libanese – nella direzione opposta, ovvero con finalità di deterrenza, difesa e sicurezza nazionale nelle democrazie.

La seconda osservazione è che il caso libanese è il frutto di una fortissima convergenza tra i molteplici ambiti in cui si articolano le attività di intelligence, a partire da operazioni clandestine, creazione di società di copertura, azioni di deception e tutto l’ampio spettro che comprende human intelligence, open source intelligence e signals intelligence. È evidente che per portare avanti un’operazione come quella libanese è necessaria la massima integrazione tra reparti diversi, nell’ambito di una riorganizzazione complessiva dei servizi segreti.

Come spingere i vertici di Hezbollah a rinunciare agli smartphone e tornare ai cercapersone e alle radio che si usavano negli anni Novanta? Come penetrare nelle aziende fornitrici e, in qualche fase della supply chain, inserire nei device switch o esplosivi? Come creare due reti digitali, una tra migliaia di cercapersone e il giorno successivo un’altra tra centinaia di radio, in modo da colpire simultaneamente il massimo numero di miliziani di Hezbollah?

Le domande potrebbero continuare, ma gli elementi emersi sinora sono sufficienti per indicare che in tutte le democrazie (e non solo nei Paesi dei Five Eyes) è necessario e urgente realizzare un nuovo modello organizzativo per le agenzie di intelligence, non più fondato su un assetto divisionale, cioè su rigide compartimentazioni settoriali per competenza.

Servono, viceversa, unità organizzative multidisciplinari orientate alla realizzazione di specifici obiettivi e progetti, composte da operativi, analisti ed esperti con le più diverse competenze ed esperienze: dal cyber a Osint, da Psyco a Humint, da specialisti in deception a manager per gestire società di copertura, tecnici delle telecomunicazioni, eccetera.

Per garantire la regia di operazioni così complesse, serve innanzitutto un profondo cambiamento nella cultura (e nella struttura) organizzativa dei nostri servizi.

È importante che il sottosegretario Alfredo Mantovano, Autorità delegata per la sicurezza della Repubblica, e Lorenzo Guerini, presidente del Copasir, concordino sulla necessità di revisionare la legge 124 del 2007. Tuttavia, mi chiedo quanto la classe politica e il Parlamento italiano siano consapevoli che una riforma efficace dei servizi richiede con urgenza un riassetto organizzativo profondamente innovativo e di ampie proporzioni.

La trasformazione dell’intelligence. Il caso cercapersone letto da Mayer

Gli attacchi recenti contro Hezbollah rivelano un’evoluzione significativa nelle modalità operative delle agenzie di intelligence, in risposta a minacce ibride che sfidano i confini tradizionali tra pubblico e privato, nazionale e internazionale. Per questo, serve una riforma radicale anche dell’organizzazione dei servizi segreti italiani, verso un modello più integrato e multidisciplinare

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