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Una delle critiche più diffuse all’Unione Europea è basata sul fatto che alcuni suoi organi decisionali sono considerati tecnocratici, lontani dalle scelte politicamente legittimate delle democrazie parlamentari. Sarebbe il trionfo del neoliberalismo, che predica la separazione dell’economia (da lasciare alle logiche del mercato, essenzialmente globali) dalle dinamiche patologiche della politica (che solo a livello nazionale trova espressione apparentemente democratica, in realtà semplicemente di raccolta del consenso elettorale su narrazioni sempre più fittizie, virtuali). È una critica sbagliata. La UE non è affatto tecnocratica, ma intergovernativa; che è peggio.

La maggior parte delle politiche a livello sovranazionale viene attuata in una logica di negoziazione diplomatica fra Capi di Stato e di Governo e/o loro rappresentanti. Il che da l’illusione di una rappresentanza democratica (visto che i governi ricevono la loro legittimità dai propri cittadini, nazionali) ma rende qualsiasi scelta collettiva europea ostaggio degli interessi dei singoli governi. Non vi sono scelte europee, ma solo negoziati europei, dai quali escono spesso decisioni che, se fossero adottate in una logica collettiva e non come somma di decisioni nazionali (quindi alla disperata ricerca di un comun denominatore) sarebbero completamente diverse.

L’Europa sarebbe tecnocratica se i Parlamenti nazionali (dotati della legittimità democratica a livello nazionale) avessero delegato degli organi tecnici a prendere decisioni per l’intera UE. Ma la Commissione non è un organo tecnico, bensì intergovernativo, espressione dei governi nazionali (ogni paese esprime un proprio Commissario). E il Consiglio, in mano al quale sono state poste tutte le decisioni più importanti, è un organo intergovernativo, formato dai rappresentanti, ancora una volta, degli Stati membri. Il Parlamento conta poco, legiferando in co-decisione col Consiglio su una gamma estremamente limitata di materie.

L’attuale architettura dell’Unione Europea, intergovernativa, è molto più pericolosa che se fosse semplicemente tecnocratica. Gli organismi tecnocratici sono intrinsecamente contrari all’espressione democratica, quindi odiosi. Gli organi intergovernativi danno invece, subdolamente, l’illusione della rappresentatività democratica, ma rispondono a logiche esclusivamente nazionali e quindi per definizione incapaci (e non legittimate) a compiere scelte collettive, per tutti i cittadini europei. Immaginate se l’Italia fosse retta da meccanismi decisionali interregionali, con ciascuna regione dotata del diritto di veto… sarebbe la paralisi.

Non solo: mentre le tecnocrazie sono al riparo dalla ricerca del consenso, gli organi intergovernativi sono preda degli effetti devastanti delle narrazioni dominanti in ciascun paese. Un sistema intergovernativo non solo non può difendersi da essi, ma è anzi quanto di più esposto alle loro pressioni, attraverso la necessità dei politici nazionali di essere ossessivamente attenti alla formazione e al mantenimento del consenso. Una volta sdoganata una narrazione, e raccolto il consenso sulla base di essa, non è più possibile tirarsi indietro, pena la perdita del consenso raccolto. Questo fa si che, più che di democrazie nazionali, dovremmo parlare di monarchie narrative nazionali: sottostiamo, in ciascun paese, alle narrazioni di volta in volta dominanti.

Questo quadro suggerisce tre considerazioni. La prima è uno scetticismo radicale nei confronti della possibilità che l’Unione Europea possa mai davvero diventare un soggetto che risponde alle esigenze collettivamente condivise dei suoi 500 milioni di cittadini, se rimane preda di logiche, o se si preferisce di narrazioni, nazionali. La seconda è che, stante comunque la necessità storica per gli staterelli europei (tutti: Francia e Germania comprese) di trovare un’aggregazione genuina di interessi collettivi, pena la fine (nello scacchiere globale) della civiltà europea, i governi dovrebbero con una sorta di (improbabile) gesto folle (in quanto contrario ai loro interessi di breve periodo) investire in un momento di riflessione collettiva, che si spera possa essere rappresentato dalla Conferenza sul Futuro dell’Europa che si aprirà il mese prossimo, per chiedere ai cittadini, non agli Stati, come vogliono rifondare la UE: su che basi decisionali, con quali legittimità democratiche e per quali politiche/competenze.

Tre: occorre individuare e lanciare una narrazione alternativa a quelle fino ad oggi dominanti, che ho già in passato definito la retorica del successo (tutto ciò che viene dalla UE è buono e giusto) e la retorica del fallimento (tutto ciò che viene dalla UE è cattivo e sbagliato) che si accaparrano l’intero spazio del dibattito pubblico, almeno in Italia. Una narrazione che spinga invece le opinioni pubbliche ad osservare in maniera costruttivamente critica la UE, ad intenderla come progetto incompiuto, come un insieme di contraddizioni da sanare, come un cantiere da completare. Una narrazione che aiuti a spingerci lontani dalle mefitiche logiche intergovernative e, possibilmente, anche da quelle tecnocratiche, per costruire una genuina democrazia sovranazionale, fondata su più livelli di scelta collettiva.

Questa è la scommessa che ci attende nei prossimi anni, forse nei prossimi mesi, prima che si chiuda, con le tornate elettorali in Francia e Germania nel 2022, la finestra di opportunità per cambiare la UE, o almeno una parte di essa.

La Conferenza sul Futuro dell’Europa

Una delle critiche più diffuse all’Unione Europea è basata sul fatto che alcuni suoi organi decisionali sono considerati tecnocratici, lontani dalle scelte politicamente legittimate delle democrazie parlamentari. Sarebbe il trionfo del neoliberalismo, che predica la separazione dell’economia (da lasciare alle logiche del mercato, essenzialmente globali) dalle dinamiche patologiche della politica (che solo a livello nazionale trova espressione apparentemente democratica, in…

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