Alla fine, l’attacco all’Iran c’è stato. Sebbene diverse voci giornalistiche abbiano già definito un “colpetto” quello inflitto dall’aviazione di Gerusalemme, quasi a conformarsi alle dichiarazioni del regime di Teheran, l’operazione “Giorni del Pentimento” (così denominata per via delle celebrazioni ebraiche del periodo) rappresenta al contrario un’ennesima dimostrazione di grande forza di Israele nei confronti del suo eterno nemico. A pochissimi giorni dal 26 ottobre, l’analisi satellitare degli obiettivi battuti dagli aerei israeliani ci fornisce tantissime risposte, sul piano tattico come su quello strategico, rivelando il disegno politico del governo Netanyahu.
L’incursione aerea delle Idf contiene prima di tutto un valore simbolico. Non vi è stato l’effetto sorpresa in quanto Teheran era stata avvisata in precedenza dell’attacco da alcuni Paesi terzi, contattati da Gerusalemme. Tra i maggiori indiziati, Russia e Qatar. La prima non è solo il maggiore sostenitore dell’Iran, ma anche la nazione con la diaspora ebraica più numerosa al mondo. Dal canto suo, Doha ospita da mesi i negoziati per una tregua nella crisi mediorientale. Nel recente passato, è stata assai vicina agli ayatollah subendo, per tale ragione, le sanzioni economiche da parte delle monarchie del Golfo e di molti altri Paesi, oltre alla temporanea esclusione dal Consiglio di Cooperazione del Golfo – GCC, l’organizzazione internazionale e area di libero scambio che riunisce, ad eccezione dell’Iran, gli stati del Golfo Persico, tra i maggiori produttori mondiali di petrolio. Non sfugge nemmeno che da giorni lo stesso capo del Mossad, David Barnea, si trova a Doha per discutere i termini della possibile tregua per Gaza.
L’Iran era quindi consapevole di un attacco israeliano. Attacco condotto su ampia scala e che ha tuttavia assai inciso su diverse componenti militari. Più di cento velivoli impiegati, tra droni, aerei da caccia, da rifornimento in volo e da guerra elettronica. Tre ondate, dapprima, per accecare i radar e distruggere i sistemi missilistici, di fabbricazione russa, S-300 delle difese aeree di Iraq e Siria, per rendere sicuri i 1.600 chilometri che separano il confine di Israele da quello iraniano. Poi, l’attacco al suolo sulle batterie contraeree a difesa degli impianti di estrazione del gas di Tange Bijor, delle raffinerie di Abadan e dell’impianto petrol-chimico di Bandar Khomeini, lungo il confine centro-meridionale con l’Iraq, le infrastrutture militari di Parchin e di Kojir, nella regione di Teheran, ove erano prodotti i carburanti per i droni e per i missili balistici, e i siti di stoccaggio di Falag e di Arbal Fath, sempre nel Nord del Paese. Ma anche alcune aree dell’aeroporto internazionale Khomeini, di Teheran, e di Islam Shahar, nella cintura meridionale della capitale.
Il sito di Parchin è tra l’altro considerato obiettivo molto sensibile: posto sotto il controllo dei pasdaran, i guardiani della rivoluzione, risulta essere elemento rilevante del programma nucleare iraniano, in quanto destinato allo sviluppo dell’arma atomica, sebbene da anni venga ufficialmente dichiarato inattivo. I governi interessati e la stampa internazionale hanno gettato acqua sul fuoco, sottolineando come la rete nucleare nazionale iraniana non sia stata interessata dagli attacchi israeliani. Le azioni di combattimento sono state condotte dalla distanza con munizionamento guidato del tipo “shoot and forget” (spara e dimentica), senza la necessità di giungere in prossimità degli obiettivi da battere.
Tutti gli aerei con la stella di Davide han fatto ritorno alle rispettive basi, indenni. Come leggere, allora, l’operazione del 26 ottobre e gli esiti che ne potrebbero scaturire? Sul piano tattico, si è trattato indubbiamente di un successo per Israele, a riprova della sua attuale superiorità tecnologica militare. La scelta di non colpire gli impianti nucleari e petroliferi manifesta la volontà di Netanyahu di evitare un’escalation della crisi mediorientale, ma anche la risolutezza nel non temere un eventuale confronto diretto col regime degli ayatollah. L’aver risparmiato poi i centri abitati costituisce un messaggio per il popolo iraniano sintetizzabile nel “…non abbiamo nulla contro di voi, ma se volete la pace e la libertà dovete liberarvi da chi vi opprime. Noi possiamo aiutarvi a farlo…”. La prova di forza di Tsahal, in risposta al poderoso attacco missilistico del 1° ottobre, ha comunque indotto Teheran a scendere a più miti consigli. Oltre all’umiliazione per la modalità con cui Israele ha condotto l’incursione, di fatto senza incontrare ostacolo, restano i gravissimi danni subiti dalla difesa aerea di cui ora il Paese è praticamente privo.
Ci vorranno sicuramente diversi mesi, prima che russi e (forse) cinesi ripristinino tale delicatissima componente militare. Ma quali sono ora le prospettive che si vanno delineando sul piano geopolitico? Israele doveva colpire, lo ha sempre sostenuto. E lo ha fatto a pochi giorni dalle elezioni presidenziali americane, per fruire ancora del pieno sostegno dell’attuale inquilino della Casa Bianca e non incorrere in qualche divieto da parte del futuro presidente eletto, chiunque sia. Resta comunque il problema dello sviluppo del nucleare iraniano, inaccettabile da parte di Gerusalemme che, in ogni caso, dopo aver lanciato un forte messaggio all’Iran, può ora concentrarsi sull’eliminazione di Hamas e sulla neutralizzazione di Hezbollah: due obiettivi assai difficili da conseguire, tenuto conto, da un lato, che a Gaza vi sono ancora 101 ostaggi israeliani che attendono di essere liberati e che Netanyahu pare avere maggiori problemi nel contrastare la crescente contestazione interna piuttosto che nel condurre una guerra su più fronti.
Dall’altro, Hezbollah possiede tutt’altra consistenza e capacità militare rispetto a Hamas, in termini di uomini, di esperienza bellica, di mezzi e di armamenti e neutralizzarne, anche solo in parte, la capacità operativa richiede tempo, pazienza e uno sforzo sul campo senza precedenti. Ma il messaggio di Gerusalemme è giunto chiaro e minaccioso anche alle altre milizie filoiraniane operanti nel quadrante mediorientale, a partire dagli Houthi, nello Yemen, e dai Kataib Hezbollah operanti in Iraq e Siria. Dal canto suo, la Russia ha invitato le parti alla moderazione, ma è evidente come le acque agitate in Medioriente abbiano sinora distolto l’attenzione internazionale da quanto accade nel teatro di crisi ucraino.
I danni subiti dall’Iran dopo il 26 ottobre comporteranno una diminuzione, se non addirittura un arresto, dei rifornimenti di droni HESA Shahed 136, tanto efficacemente utilizzati dai russi contro gli ucraini. Ma il Cremlino preme al momento per una sostanziale stabilizzazione dell’area. Il summit dei Paesi del Brics di Kazan del 22, 23 e 24 ottobre ha sancito il successo diplomatico di Vladimir Putin sul tema del multilateralismo per un nuovo ordine mondiale “democratico”, ovviamente in contrapposizione al sistema politico-economico occidentale. Si è trattato del primo vertice che, oltre ai tradizionali fondatori, Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, ha visto la partecipazione di quattro nuovi Paesi membri, Emirati Arabi, Iran, Egitto ed Etiopia. Grande è quindi l’interesse di Mosca nell’avvicinare le monarchie del Golfo cercando di allentare il legame che le unisce al forte partner americano.
L’Arabia Saudita ha condannato aspramente l’attacco israeliano e ha invitato le parti alla moderazione e a lavorare per una de-escalation. Una posizione che, se da una parte mantiene viva la prospettiva di una ripresa dei contatti con Israele per la normalizzazione dei rapporti tra i due Paesi, dall’altra evidenzia una progressiva attenzione verso la Russia. Si ricorderà pure che, sul finire dello scorso anno, Putin fece visita al principe Mohammad Bin Salman: un evento che ebbe eco mediatica internazionale, ma anche effetti geopolitici concreti. Resta la contrapposizione verso l’Iran per la leadership regionale. Un confronto sceso a livelli critici nel 2016, nel quadro della guerra nello Yemen, e che, grazie anche alla diplomazia cinese, nella primavera 2023, ha conosciuto sorprendentemente momenti di nuova distensione.
Gli Stati Uniti, dal canto loro, se da un lato sostengono incrollabilmente Israele, dall’altro tentano di abbassare il livello della tensione, oggi assai elevato, nella convinzione che un dialogo tra Gerusalemme e mondo arabo è possibile. E, poi, la Cina che sull’Iran ha puntato tantissimo investendo 400 miliardi di dollari, a partire dal 2016, per garantirsi prodotti petroliferi a prezzi scontati per 25 anni. Le ragioni vanno ricercate nella centralità geografica del Paese, strategica per lo sviluppo della Belt and Road Initiative – Bri, il progetto della “nuova Via della Seta” per i commerci con l’Occidente. Pechino intravede innanzitutto la possibilità di realizzare in Iran un hub logistico alternativo al corridoio transcaspico che attraverserebbe l’Asia centrale, il Caucaso e la Turchia prima di giungere in Europa. E, poi, la disponibilità dei porti, quello di Chabahar su tutti, che consentirebbero alle navi cinesi di bypassare lo Stretto di Hormuz e il Golfo Persico, sempre esposti a crisi o confronti di natura politica. A dar man forte all’Iran il vicino Pakistan. I due Paesi stanno lavorando per connettere il porto Chabahar con lo scalo pakistano di Gwadar, fondamentale nel progetto Bri per la realizzazione del corridoio economico sino-pakistano.
È evidente, quindi, la convenienza di Pechino a sostenere Teheran, ma è altrettanto importante che tale sostegno possa svilupparsi in una regione geopolitica stabile e pacificata. La soluzione della crisi in Medioriente resta il riconoscimento di due popoli in due Stati, liberi e indipendenti. I palestinesi devono poter vivere in un loro territorio come pure gli israeliani hanno il diritto di tenere al sicuro la loro nazione e di vivere in pace. Argomenti che appaiono lontani anni luce dall’attualità. Eppure, non vi è alternativa.