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L’operazione militare israeliana contro obiettivi controllati dagli Houthi in Yemen del 26 dicembre ha segnato un’escalation significativa nelle tensioni regionali. I raid aerei, condotti dall’aviazione israeliana (IAF), hanno colpito infrastrutture militari e portuali fondamentali per il gruppo filo-iraniano, che controlla ormai buona parte del Paese dopo dieci anni di guerra civile. Tra i target l’Aeroporto Internazionale di Sana’a e i porti di Al-Hudaydah, Salif e Ras Kanatib. Secondo Israele, queste strutture erano utilizzate per il rifornimento di armi iraniane e per il supporto logistico agli Houthi.

A seguito di questi raid, gli Houthi hanno lanciato un missile balistico diretto verso l’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, confermando di essere stati toccati dall’azione israeliana — che non è stata la prima e non sarà l’ultima. L’attacco yemenita, avvenuto nella notte tra giovedì e venerdì, è stato intercettato dal sistema di difesa THAAD — messo in funzione per la prima volta da quando è stato schierato, fornito dagli Stati Uniti, a seguito dell’attacco di rappresaglia iraniana contro lo stato ebraico. È anche la prima volta che un missile proveniente dallo Yemen prende di mira un’infrastruttura così strategica, protetta solo dalle capacità tecnologiche della difesa israeliana (e/o alleate). L’intercettazione, definita un successo e avvenuta fuori dallo spazio aereo israeliano, ha provocato il dirottamento di voli internazionali diretti a Tel Aviv (il pensiero alla tragedia del velivolo azero è vivissimo, d’altronde) e l’attivazione delle sirene d’allarme in tutto il centro del Paese.

La tensione si allarga 

Che le tensioni si stiano espandendo è già chiaro da tempo. L’operazione israeliana contro gli Houthi di pochi giorni fa non è stata una mossa preventiva volta a ridurre la capacità del gruppo di operare, perché lo Stato ebraico considera gli Houthi una pedina chiave dell’asse iraniano del terrore, accusandoli di destabilizzare la regione e minacciare la libertà di navigazione nel Mar Rosso. D’altronde gli Houthi rivendicano fin dall’inizio dell’invasione della Striscia di Gaza di voler combattere per proteggere il destino dei palestinesi — e hanno già in varie occasioni cercato di colpire il territorio israeliano.

Il gruppo rivoluzionario sta sfruttando la situazione. È in ballo la riconfigurazione dello Yemen dopo la guerra civile che gli Houthi hanno in qualche modo vinto — per lo meno perché sono riusciti con la forza a conquistare il Nord, terra dell’ambizione separatista che li ha mossi sin dall’inizio della loro militanza, e a controllarlo, sempre con la forza. Il conflitto yemenita è attualmente fermo: la coalizione a guida saudita che ha cercato di proteggere il governo alleato di Sanaa sta mediando con gli Houthi e la Comunità internazionale. I rivoluzionari nordisti sanno che a quel tavolo il linguaggio della forza può essere parlato e ascoltato.

A questo si legano le dimostrazioni di capacità militari e sfrontatezza geopolitica date nell’Indo-Mediterraneo, dove con i loro attacchi gli Houthi hanno destabilizzato la geoeconomia globale. Gli Houthi dicono di colpire le navi commerciali legate a Israele tra Mar Rosso, Corno d’Africa e Mare dell’Oman, ma intendono dimostrare ai loro interlocutori di essere in grado di azioni altamente impattanti — e di non aver paura di procedere. Messaggio utile per chi sostiene un modello di governance internazionale dove è spesso la forza a segnare il corso del diritto più delle regole condivise.

“Abbiamo la capacità di espandere i nostri obiettivi in Israele”, dice il portavoce del gruppo commentando il lancio del missile balistico su Israele, mandando un messaggio chiaro — che ha anche l’obiettivo di accaparrarsi consensi, di vario genere, tra il variegato gruppo di Paesi che Israele si è in vario modo inimicato durante le attività di risposta al mostruoso attacco del 7 Ottobre.

Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha dichiarato che Israele non esiterà a colpire ogni minaccia contro lo Stato ebraico, ribadendo l’importanza di mantenere una postura offensiva contro i suoi nemici regionali. “Gli Houthi, come Hamas e Hezbollah, devono capire che le nostre capacità difensive e offensive non conoscono confini”. Dietro al premier, parte degli apparati e diversi tra gli alleati politici iniziano a spingere con maggiore forza per un’azione che risolva il problema alla radice: attaccare direttamente l’Iran, considerato la causa iniziale dei problemi esistenziali di Israele. È un’eventualità da non escludere, ma che Netanyahu non ha certamente intenzione di innescare se non con il consenso di Donald Trump, perché sa di non poter mettere un dossier così complicato sul tavolo dell’Inauguration senza averlo prima condiviso.

Intanto, le tensioni con gli Houthi producono automatiche reazioni. Il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha espresso profonda preoccupazione per l’escalation tra Israele e gli Houthi, condannando l’azione su infrastrutture civili (il cui uso per scopi militari è stato comunque criticato da Guterres) e ribadendo la necessità di rispettare il diritto internazionale. Guterres ha inoltre ricordato che gli attacchi aerei israeliani hanno causato feriti anche tra il personale umanitario dell’Onu presente all’aeroporto di Sanaa per una missione di alto livello.

Gli Houthi hanno diffuso un video in cui si vede il direttore dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, costretto ad evacuare di corsa la sala d’attesa dell’aeroporto yemenita mentre arrivano i primi bombardamenti israeliani. È un’altra dimensione, quella informativa, su cui il warfare che coinvolge gli Houthi si sta muovendo: se le unità di infowar israeliana sono altamente professionalizzate, anche gli yemeniti hanno ormai acquisito e compreso come muovere e solleticare la narrazione.

Scambi di colpi con gli Houthi. Così Israele allarga la guerra nel Mar Rosso

I raid aerei, condotti dall’aviazione israeliana, hanno colpito infrastrutture militari e portuali fondamentali per il gruppo filo-iraniano. Lo scambio di colpi tra Israele e Houthi non è il primo, ma il conflitto rischia adesso un nuovo allargamento. Ecco perché

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