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La colonnina di mercurio segna temperature sempre più rigide sull’inverno demografico italiano. Fuori di metafora, i numeri che arrivano dall’ultimo rapporto Istat sulla natalità sono oggettivamente preoccupanti. Due cifre su tutte: nei primi sei mesi del 2023 i nuovi nati segnano un saldo negativo di 3.500 unità rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Di più. Portando le lancette al 2008 emerge che, in questo lasso temporale, siano ben 183 mila le nascite in meno. La fecondità delle donne, dunque, scende ulteriormente: siamo a quota 1,22 figli. Un dato in netta controtendenza rispetto al contesto europeo. Basta pensare che in Francia l’indice di fecondità segna 1,8 figli a donna. Un divario enorme che può essere colmato, in prospettiva, solo con “una combinazione di politiche familiari efficaci, strategie per il mercato del lavoro dedicate a donne e giovani e, infine, integrazione efficace della popolazione migrante”. L’analisi è di Alessandro Rosina, docente di Demografia e Statistica sociale all’Università Cattolica di Milano.

Professor Rosina, partiamo dall’analisi dei numeri.

I dati Istat sono la fotografia di una situazione preoccupate. Di una controtendenza che, nonostante l’incoraggiamento fornito dal Pnrr dopo la pandemia, non si è verificata. Anzi. Le nascite registrano un ulteriore crollo e l’indice di natalità ci colloca alle ultime posizioni a livello europeo.

È immaginabile attribuire una responsabilità per questo fenomeno?

Ci sono tanti fattori concomitanti. A partire dalle scarse e poco efficaci politiche sulla natalità, che si inseriscono in un contesto di incertezza che grava in particolare sui giovani. Questo ha riflessi negativi che si articolano su vari livelli.

In questi giorni in cui l’Esecutivo sta compilando la Finanziaria, è tornato in auge il tema delle pensioni. Si riferisce a questo?

Non solo. La sostenibilità del sistema pensionistico è sicuramente un tema centrale. Così come lo sono la sostenibilità della spesa sanitaria (una popolazione anziana “costa” inevitabilmente di più rispetto a una popolazione giovane). Da ultimo, c’è il piano lavorativo: ci sono sempre meno persone in età da lavoro, che producono reddito e sempre più persone in età pensionabile che rappresentano un “costo” per la società. A questo si aggiunge il fatto che ci sono sempre meno donne in età feconda e quindi potenziali madri. Questo genera squilibri demografici molto pericolosi per la società.

Invertire il trend non è certo cosa semplice. Se dovesse stabilire un punto di partenza, quale sarebbe?

Difficile stabilire un punto di partenza. Ci sono una serie di provvedimenti tra loro complementari che vanno portati avanti. In particolare mi riferisco alle politiche familiari: l’Italia deve avere come modello, sotto questo profilo, gli altri Paesi europei che stanno riuscendo a vincere la sfida demografica. La politica deve lanciare un messaggio forte in questo senso.

È ragionevole immaginare un estensione dei servizi per l’infanzia che sia economicamente compatibile con il bilancio pubblico italiano?

Questione di opportunità. Ci deve essere un cambio di paradigma culturale nell’approccio al tema della demografica. Non si può impostare una Manovra accontentando tutti e poi, con le risorse che restano, provare a mettere qualcosa sulle politiche familiari e legate alla natalità. È sbagliato.

Torniamo ai nidi. Attualmente la copertura è al 27%. Troppo poco?

Decisamente. L’obiettivo europeo per il 2010 era quello di arrivare a una copertura di questi servizi legati alla fascia d’età 0-2 anni del 33%. Ora bisogna andare oltre: l’impegno deve essere orientato a garantire almeno il 50% di copertura. A questo vanno abbinate delle nuove politiche di conciliazione tra vita e lavoro.

Nel campo del lavoro devono essere coinvolte anche le imprese. Come approcciare virtuosamente il tema?

Alla base deve esserci una maggiore flessibilità. Il part-time, ad esempio, non può essere un modo per le aziende di pagare meno i dipendenti. Ma deve essere una scelta. In particolare per le donne con figli. In più servono congedi di paternità paritari, sul modello sviluppato in particolare dai paesi scandinavi. O come ha fatto la Spagna che ha equiparato il congedo di paternità, pagando al 100% la retribuzione ai dipendenti. Un’efficace politica di conciliazione tra vita e lavoro, contribuisce all’inserimento dei giovani nel mercato occupazionale.

Tra le incertezze di cui parlava sopra, ci sono anche gli elevati costi che l’avere figli comporta sul bilancio di una famiglia. Gli assegni familiari sono un “cuscinetto” significativo o sono marginali?

Confrontiamoci con altri Paesi. Ne cito uno: la Germania. L’assegno familiare, per tutti i bambini indipendentemente dal reddito, è du 220 euro su base mensile. In Italia l’importo è mediamente di 75 euro. Solo nei casi in cui il reddito familiare sia molto basso l’importo è leggermente superiore. Ma il punto, ancora una volta, è culturale. In Germania si è dato un segnale chiaro: le famiglie sono al centro dell’agenda politica, sono la base delle politiche di sviluppo del Paese. Ed ecco perché si eroga una cifra considerevole a tutte le famiglie.

In premessa parlava di integrazione dei migranti e inserimento nel mondo del lavoro. Un’altra sfida da cogliere, di una certa complessità. Qual è la via migliore?

L’integrazione dei migranti rappresenta, innanzitutto, una risposta immediata al mondo del lavoro in termini di manodopera. Un problema annoso, di cui sempre più spesso le imprese lamentano la portata. E, in prospettiva, l’inclusione reale e i processi virtuosi di integrazione potrebbero creare un terreno fertile per la formazione di nuove famiglie.

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Dal 2008 al 2023 si registrano 183 mila nascite in meno. Nei primi sei mesi di quest’anno, il saldo negativo è di 3.500 unità. L’inverno demografico prosegue e non si intravedono politiche efficaci per invertire questo trend. Gli antidoti, però, ci sono. A spiegarli in una conversazione con Formiche.net è il docente di Demografia, Alessandro Rosina

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