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Stando a quanto riferito da molti media anche in Italia, pochi giorni prima di morire Hassan Nasrallah avrebbe detto di non sapere quanti giorni gli restassero da trascorrere con i suoi compagni, ma che in ogni caso lui avrebbe seguitato a sostenere la resistenza fino alla vittoria. Queste parole confermano in modo impressionante che il leader di Hezbollah è stato un khomeinista di fede apocalittica. Nel suo discorso apocalittico, infatti, l’ayatollah Ruhollah Khomeini ha fondato una teologia prima di lui ignota. Il suo discorso può essere riassunto così: i martiri non muoiono, ma vanno in una sorta di tempo mediano, quello dove si trova l’imam nascosto, colui che tornerà alla fine dei tempi per far trionfare il bene nel giorno della battaglia finale, il giorno dell’Apocalisse. Da lì, da questo tempo mediano, i martiri spingono il mondo per accelerare l’arrivo del giorno del trionfo del bene sul male. È esattamente quel che ha detto Nasrallah nelle parole a lui attribuite. Per chi è convinto di questo, il tempo non è lineare, ma procede per urti tra bene e male e il compito dei combattenti è di creare da un urto un urto più grande, fino alla battaglia finale, Armageddon. Così i martiri avvicinano il giorno della resa dei conti, riducono il tempo che è lasciato nel sopravvento delle forze del male, consentono al bene un più vicino trionfo definitivo.

Tutto questo non impressiona chi lo sa, i khomeinisti apocalittici, ma li conferma nella loro visione e convinzione. Crederci non astrae dal fare cinico e concreto della “politica”, dell’azione armata, del desiderio di successo e rafforzamento, ma lo inquadra in un contesto teologico-culturale che aiuta a comprendere una visione, che è ovviamente opposta dalla nostra, ma anche da tutto ciò che qualsiasi altro scuola teologica definisce “islamico”. È il cuore pulsante di un’eresia che presuppone il governo teocratico; gestire questa lotta definitiva, apocalittica, con il sostegno dal regno del tempo mediano dei martiri, non può prevedere dissensi, confronti, votazioni su come gestire l’illuminazione stradale, o gli appalti, ma solo una totale dedizione al rafforzamento dell’urto che si provocherà sapendo della violenza della reazione e preparando una maggiore reazione.

Ieri sera queste parole sono state riferite con accuratezza da un ottimo servizio in un telegiornale nazionale, un contributo qualificato alla comprensione di ciò che accade. Il culto khomeinista dei martiri, dei prima di lui sconosciuti attentatori suicidi, si spiega così. E probabilmente si spiega la ferma ferocia con cui Nasrallah ha combattuto le sue guerre, anche dentro l’Islam, contro quei credenti che però non hanno capito la visione apocalittica e vivono in un tempo lineare, nel quale ci si impegna per migliorare la situazione del mondo in attesa che un giorno il tempo, quando Dio vorrà, finirà e il bene trionferà. Realizzare dunque il famoso “asse della resistenza” che unisca l’Iran khomeinista alla costa mediterranea, prendendo il controllo di Iraq, Siria e Libano, è stato il suo scopo apocalittico. Le tappe fondamentali della sua impresa miliziana sono state per sottrarre Libano e Siria all’altro Islam, quello che opera nella linearità del tempo e i suoi alleati, in gran parte fautori del dialogo interreligioso. Senza il controllo di Iraq, Libano e Siria questo impianto apocalittico non avrebbe potenziato la sua forza d’urto. Forze vale la pena di ricordare due momenti cruciali di questa “battaglia”: il primo momento è stato per la conquista del Libano, ed ha avuto luogo nel 2005, contro il musulmano più amato dal popolo ma anche compreso da tanti leader occidentali, Rafiq Hariri.

Anno 2005, 14 febbraio, giorno di San Valentino. Una terribile esplosione devasta il centro di Beirut: un enorme cratere rende impercorribile il lungo mare della capitale libanese. Solo nel 2020 il Tribunale Internazionale stabilirà che operativi di Hezbollah hanno fatto saltare in aria la la vettura che riportava a casa dal parlamento libanese l’ex premier, musulmano sunnita, Hariri, l’uomo che aveva ricostruito il devastato centro cittadino di Beirut e le 22 persone che viaggiavano con lui.

Il 14 marzo un milione di libanesi scendono in piazza per ricordare il premier assassinato e chiedere il ritiro dal Paese delle forze d’occupazione siriane, alleate e presunte mandanti del crimine eseguito da Hezbollah.

Il 7 maggio dello stesso viene ucciso per strada lo scrittore, cristiano, Samir Kassir.

Il 21 giugno viene assassinato l’ex segretario del Partito comunista, Georges Hawi.

Il 12 dicembre viene assassinato lo scrittore, cristiano, Gebran Tuéni.

Il 21 novembre 2006 viene assassinato il ministro, cristiano, Pierre Gemayel.

Il 1° dicembre 2006 Hezbollah pone l’assedio al palazzo del primo ministro per imporne le dimissioni. Si trattava del più stretto collaboratore di Hariri, Fouaf Siniora.

Da allora Nasrallah ha preso sempre di più un controllo diretto e indiretto dello Stato libanese.

Il secondo momento è stato il 2011, quando Hezbollah è intervenuto con piena forza per soffocare ogni forma di dissenso in Siria. È stato il momento della grande vittoria, ma anche quello in cui molti suoi seguaci hanno visto le armi di Hezbollah voltarsi contro milioni di musulmani siriani, ferocemente combattuti per anni.

Le scene di giubilo per la sua morte tra i siriani e molti libanesi da lui combattuti, uccisi, emarginati, si spiegano così. Ma quel giubilo, ovviamente comprensibile, dimentica non considera i civili morti in quelle stesse ore. Secondo la BBC solo nell’azione che ha eliminato Nasrallah sono periti 492 civili. Questo numero equivale alla metà, quasi, di tutti i caduti libanesi nella guerra tra Israele e Hezbollah nel 2006, la guerra del 33 giorni. Oltre alle altre vittime ci sono sfollati, feriti, rimossi: ordini di evacuazione che si susseguono incessanti. Questa piegata e piagata comunità sciita non va recuperata al discorso libanese, all’amicizia e solidarietà nazionale?  Lo Stato, che Nasrallah non voleva, nasce nella comunanza, non dall’esclusione, è contro il discorso apocalittico, è contro la vendetta comunitaria.

È difficile che la comunità sciita possa porsi oggi davanti allo specchio della storia e riproporsi la domanda esistenziale che la insegue da decenni; libanesità o ala marciante della rivoluzione khomeinista? Molte luminose figure sciite in Libano hanno indicato da tempo la prima strada, non la seconda e sono state per lo più silenziate. Oggi occorre rifondare il Libano dal proprio interno, e il primo passo è superare il settarismo identitario, che pervade nella paura e nel pregiudizio molti, anche tra i cristiani. Oggi il compito enorme è ricostruire lo Stato di tutti. Quello di cui parlavano le vittime del 2005, arabo e portatore di un nuovo arabismo, libanese. Samir Kassir, vittima del 2005, ha definito Beirut: araba, europeizzata, moderna, mediterranea.

Sugli aiuti della comunità Internazionale, indispensabili a partire dal lavoro diplomatico per il cessate il fuoco, è logico fare affidamento, ma non troppo. Il futuro, se c’è, è cosmopolita, non identirista, settario. Il dispiegamento dell’esercito nazionale a presidio dell’ordine è il vero buon segno: lo Stato, un po’, ancora c’è. Per tutti.

Il Libano dopo Nasrallah, tra apocalisse e ricostruzione. Scrive Cristiano

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