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“Lasciateli governare, che sia il Paese o la Biennale non cambia. Se non funzionano, e in effetti dopo un anno i pronostici non sono fausti, non sarà perché sono fascisti. Ma perché sono scarsi”. Così Alberto Mattioli su La Stampa commentando la nomina di Pietrangelo Buttafuoco – intellettuale di stretta osservanza missina – alla guida della Biennale di Venezia, storicamente considerata un feudo rosso. Una nomina salutata peraltro da apprezzamenti bipartisan, a testimonianza della caratura culturale dell’uomo.

“Lasciateli governare”, dunque. Finalmente, viene da dire. È questo, e non quello della Biennale, il vero “tetto di cristallo” che si è infranto. Dopo mezzo secolo di marginalizzazione nelle “fogne” e vent’anni di vassallaggio più o meno accondiscendente alla corte di Arcore, la destra guida oggi il Paese con piena legittimazione non solo democratica ma anche culturale. Un miracolo, a pensare che, fino a pochi mesi fa, Fratelli d’Italia era considerato un partito di parvenu e la parola “destra” suonava ancora decisamente sinistra.

Pronipoti di Mussolini e figli di un dio minore, i tedofori della Fiamma tricolore nel Terzo Millennio erano già stati condannati a quel destino di marginalità che durante tutta la Prima Repubblica aveva tenuto il Msi al di fuori dell’arco costituzionale. Una dinamica che – sottolinea Paolo Macry nel suo La destra italiana: da Guglielmo Giannini a Giorgia Meloni – si è rivelata nel tempo «un grosso limite alla partecipazione democratica, a un rapporto positivo tra elettori ed eletti».

Ci è voluto un anno di Meloni a Palazzo Chigi prima sentire pronunciare la frase “lasciateli governare”. Ma perché, obietterà qualcuno, non governavano già quando c’era Berlusconi? No, o quantomeno non esattamente. Quando c’era lui (in questo caso il Cavaliere e non il Duce) il pensiero dominante nell’area moderata di destra era quello della “rivoluzione liberale”. Una rivoluzione annunciata a reti (private) unificate ma rimasta poi largamente sulla carta, come scriveva sul Foglio Luciano Capone all’indomani della scomparsa del fondatore di Forza Italia. È oggi che si misura il valore della destra e la sua capacità di saper gestire la macchina dello Stato.

Non è demonizzando, del resto, che si scongiura un “pericolo”. La vicenda degli ultimi trent’anni avrebbe dovuto insegnarcelo: prima Berlusconi, poi i “pericolosi bolscevichi” dell’Ulivo, poi i Cinque Stelle e oggi Fratelli d’Italia. Tutti etichettati come anticamera di derive populiste o pseudo-dittatoriali e tutti rigorosamente usciti vittoriosi dalle urne. “È la democrazia, baby, e tu non puoi farci niente”, direbbe un Humphrey Bogart d’antan. E poi, si sa, la Storia raramente è magistra vitæ.

È solo mettendolo alla prova, che si può sperare di veder cadere l’avversario. Purché a cadere sia solo lui e non anche le finanze pubbliche, come nel caso del buco da 100 miliardi lasciato in eredità dal Superbonus. Si guardi, proprio a tal proposito, la parabola elettorale del M5S: partito con un clamoroso 29% nel 2013, passato a un incredibile 33% nel 2018 e finito con un misero 15% nel 2022 dopo aver trascorso la seconda metà del decennio al governo prima con la Lega, poi con il centrosinistra e poi – sacrilegio! – con “il banchiere” Draghi.

Lasciamoli governare, dunque. Anche perché, quale sarebbe l’alternativa? A sinistra – spiace dirlo, perché fa male alla dialettica democratica – regna sovrano il caos. Il Pd è ancora in crisi d’identità dopo la svolta movimentista impressa dalla nuova segreteria Schlein. Le truppe pentastellate di Conte giocano a chi è più di progressista da un lato con i Dem e dall’altro con la Cgil, ma poi a conti fatti nessuno è in grado di far sintesi. Peccato mortale, a sinistra, ma qui a mancare è addirittura l’analisi («e poi non c’ho l’elmetto», aggiungerebbe Antonello Venditti).

Non parliamo del centro, ma semplicemente perché non esiste, a dispetto delle più o meno buone intenzioni espresse negli ultimi dodici mesi da Renzi e Calenda alle prese con un dolorosissimo divorzio parlamentare. Un altro governo tecnico, allora? O una nuova grande ammucchiata di “solidarietà nazionale” che fa tanto Nel letto di Lucia del mai troppo compianto Rino Gaetano? Anche no, grazie.

Lasciamoli governare, dunque. Se poi non funzionano – come scrive Mattioli – “non sarà perché sono fascisti, ma perché sono scarsi”. E, guardando all’ultimo pasticcio sul prelievo forzoso dai conti correnti, qualche preoccupazione (o speranza, in base al punto di vista) inizia già a venir fuori.

Lasciamoli governare, che alternativa abbiamo?

È solo mettendolo alla prova, che si può sperare di veder cadere l’avversario. Purché a cadere sia solo lui e non anche le finanze pubbliche. Se poi non funzionano – come scrive Mattioli – “non sarà perché sono fascisti, ma perché sono scarsi”

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