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Dodici mesi possono bastare per ritirare il contingente italiano dall’Afghanistan. Attenzione però: la guerra nel Paese è tutt’altro che terminata e sarà necessario procedere con cautela, mantenendo elevata la componente operativa fino all’ultimo uomo che salirà sull’aereo. Prima, sarà comunque prioritario un ragionamento strategico sull’opportunità o meno del ripiegamento italiano. Se fosse solo la nostra componente a venir via, ne potrebbe risentire la credibilità acquisita negli anni. Se il ripiegamento fosse invece complessivo di tutte le forze coinvolte, allora l’Afghanistan potrebbe ritrovarsi “in una situazione ancora più ingarbugliata”. Lo spiega a Formiche.net il generale Marco Bertolini, già comandante del Comando operativo di vertice interforze (Coi), del Comando interforze per le operazioni delle Forze speciali (Cofs) e della Brigata paracadutisti Folgore, nonché primo italiano ad aver ricoperto il ruolo di capo di Stato maggiore del comando Isaf in Afghanistan, la missione che ha preceduto l’attuale Resolute Support, impegno Nato in cui si colloca il contingente italiano.

Generale, come si affronta un ritiro da una missione così importante sia in termini numerici (con circa 900 soldati nel Paese) sia per durata temporale, a 18 anni dall’arrivo dei nostri militari?

Intanto è opportuno ricordare che non partiamo da un foglio bianco. Un’ipotesi di ritiro era già stata studiata all’inizio del 2016, quando si discuteva se restare o meno in Afghanistan. Ad ogni modo, occorre partire dal fatto che si sta parlando del ritiro di un contingente da una zona operativa non pacificata. Parliamo di un contesto diverso, ad esempio, dalla Bosnia, dove il ripiegamento avvenne in seguito al ritiro di serbi e croati al di qua e al di là della Linea di confine inter-entità (Ielb). In Afghanistan ci sono i talebani che, seppur abbiano raggiunto un deal con gli Stati Uniti, restano nemici del governo di Kabul di cui siamo alleati. Come se non bastasse, si registra un’importante presenza di al Qaeda e dell’Isis. In questo contesto, tutt’altro che pacificato, il ritiro non è un’operazione logistica e amministrativa, ma piuttosto un’operazione tattica che deve consentire di portare fuori dal Paese tutto in sicurezza.

Cosa significa in termini concreti?

Significa che bisogna fare molta attenzione, mantenendo fino alla fine una componente operativa a protezione del ritiro. Tra l’altro, l’Afghanistan non ha sbocchi al mare; si entra e si esce solo per via aerea. L’aeroporto di Kabul dista circa 800 chilometri da Herat, ragion per cui l’unico scalo utilizzabile è proprio quello posto all’interno della nostra base. Essa, in linea di principio, dovrà essere mantenuta in assoluta sicurezza. Nel momento in cui inizieremo a diminuire le nostre forze (ammettendo che il ritiro proceda), diventeremo un obiettivo appetibile. Fino alla fine, fino all’ultimo uomo che salirà sull’aereo, dovremmo avere un dispositivo operativo significativo, capace di garantire al personale logistico la sicurezza delle operazioni di ripiegamento. Non sarà sufficiente il semplice controllo del perimetro della base; basterebbero difatti un paio di razzi lanciati da 5 chilometri di distanza e diretti contro l’aeroporto a creare danni enormi. L’attività di sorveglianza dovrà essere dunque eseguita anche all’esterno; toccherà alle Forze afgane, me noi dovremmo assicurarci che il nostro interesse sia garantito. Poi c’è il problema dei velivoli.

Ci spieghi meglio.

Molto tornerà con i nostri velivoli, ma molto altro no. Per questo tipo di operazioni servono velivoli più grandi rispetto al nostro aereo da trasporto tattico C-130 che conserva capacità di carico limitate. Ci si dovrà affidare agli americani C-17 o ai russi Antonov, che generalmente vengono affittati proprio per tale tipologia di scopi. Certo, se il ritiro riguarderà complessivamente tutta la missione internazionale Resolute support, in molti ricorreranno a questa opzione e dovremmo coordinarci.

Non c’è modo altro modo di ritirarsi?

Ci sono almeno due ipotesi alternative. La prima riguarda il passaggio via Islam Qala, cittadina al confine tra la provincia di Herat e l’Iran. Da lì, si potrebbe arrivare al Golfo persico e rientrare via nave, ma ciò farebbe emergere un problema di carattere politico perché significherebbe concordare le manovre con gli iraniani. Non so quanto questo farebbe piacere all’attuale amministrazione americana. Poi, c’è l’ipotesi del passaggio dal Pakistan per imbarcarsi a Karachi. In questo caso, bisognerebbe far passare considerevoli colonne di mezzi in territori non sicuri, come la provincia afgana di Kandahar e l’attigua zona del Pakistan. Direi che il mezzo aereo resta il più ovvio.

Dodici mesi possono bastare per tutto questo?

Se iniziassimo adesso, possono bastare. Attualmente abbiamo 900 uomini in Afghanistan, un’entità abbastanza ridotta, a cui però vanno aggiunti parecchi materiali. Alcuni li lasceremo lì, anche perché costerebbe più spostarli che ricomprarli nuovi. Inoltre, bisogna considerare che ci potrebbero essere dei periodi in cui la pista non sarà agibile per le condizioni meteorologiche, così come si dovrà tenere conto che, nei periodo estivi, le elevate temperature riducono le possibilità di carico dei velivoli. Infine, servirà mantenere un’alta attenzione alle mosse della controparte. Se si rendesse conto di una fase di debolezza da parte nostra, potrebbe decidere di tentare qualche colpo.

Per ora, l’ipotetico ritiro italiano sembra legato all’accordo raggiunto tra Stati Uniti e talebani sulla risoluzione del conflitto, nonché alle intenzioni già manifestate da Trump sul ripiegamento Usa. È immaginabile invece un ritiro unilaterale da parte dell’Italia?

Il nostro è uno dei Paesi di riferimento in Afghanistan insieme a Stati Uniti, Germania e Canada. Prima c’era anche la Gran Bretagna, senza però il comando di una regione. Durante la missione Isaf, a noi era devoluta la sicurezza dell’intera regione occidentale del Paese. Con il passaggio a Resolute Support, ci è rimasta la competenza nell’area con il compito di supporto, mentoring e addestramento alle Forze afgane. Si tratta di un quarto del territorio nazionale: tutta la regione ovest. È chiaro che, se fossimo gli unici a venire via, si verrebbe a creare un vuoto che altri sarebbero chiamati a colmare, forse tedeschi o francesi, quest’ultimi venuti via dal Paese perché privi della responsabilità di una regione. Oppure, potrebbero essere canadesi o americani. Ad ora, sembra comunque che anche gli Stati Uniti desiderino ridurre il proprio impegno nel teatro, anche se difficilmente (pure nel caso di un disimpegno complessivo) lasceranno la componente presente a Kabul, dove l’ambasciata è ormai diventata una fortezza, e quella stanziata nella vicina e molto importante base aerea di Bagram.

Mi pare comunque di aver capito che, secondo lei, l’Afghanistan non è pronto a un ritiro della missione internazionale, né che sarebbe positivo in tal senso un ripiegamento della sola componente italiana. È così?

Se il ritiro fosse complessivo, la situazione nel Paese si ingarbuglierebbe parecchio. D’altra parte, se il ritiro fosse unilaterale, per l’Italia sarebbe un’operazione di perdita, anche perché siamo riusciti a capitalizzare ben poco la nostra presenza nel Paese, ad esempio rispetto ai tedeschi che hanno investito parecchio con la propria industria. Abbiamo acquisito dei crediti importanti dal punto di vista militare che avremmo potuto sfruttare meglio in politica estera. Se ciò non è avvenuto, la colpa è delle nostra politica.

Vuole aggiungere qualcosa?

Mi lasci terminare sottolineando come l’impegno in Afghanistan non debba essere considerato un dettaglio o, peggio, un fastidio nella nostra storia militare. Stiamo parlando di una vera e propria guerra ancora in corso tra il governo legittimo, di cui siamo alleati, e i talebani. Nel suo complesso, si tratta di un’operazione importante, grazie alla quale abbiamo avuto grande visibilità e credibilità, ma dalla quale sono scaturite al tempo stesso nuove dottrine in cui adesso siamo in grado di muoverci con disinvoltura. È chiaro che oggi abbiamo altre esigenze strategiche, a partire dalla Liba e dal Mediterraneo, senza dimenticare quanto dolorosa è stata la presenza in Afghanistan in termini di perdita di vite umane. Eppure, non dobbiamo neanche rinnegare i risultati ottenuti. Abbiamo imparato tanto: la nostra componente elicotteristica ha operato in situazioni di combattimento; le unità di fanteria sono state spesso chiamate a combattere, o comunque a pianificare sempre l’attività nell’ottica di un impegno bellico. Tra uno o due anni, quando usciremo dall’Afghanistan, saremo aumentati in credibilità ed efficienza. Non è un fastidio, ma un periodo importante della nostra storia.

Come si ritira un contingente militare. Il punto del generale Bertolini sull'Afghanistan

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