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Non essendo un economista, non mi sembra opportuno giudicare la nota di aggiornamento al documento programmatico presentato nei giorni scorsi in base ai suoi effetti futuri, catastrofici per la maggior parte dei commentatori. A parte il fatto che gli economisti ci hanno sempre poco azzeccato nelle loro previsioni, e che il futuro ha di bello proprio questo, che a nessuno è dato conoscerlo (penso ai tanti liberal-liberisti che oggi si ergono a Cassandre dimentichi del principio a loro caro delle conseguenze non intenzionali delle azioni umane), a me sembra che del documento programmatico presentato dal governo si possano sottolineare due punti. A livello strategico, esso rappresenta, con l’isolamento del ministro Tria, un posizionamento netto del nostro governo nella guerra politica in corso in Europa fra Stati e all’interno di essi fra le élite ancora legate al vecchio assetto comunitario e quelle (per ora abbastanza sgangherate) che si affacciano all’orizzonte proponendosi di scardinare quel sistema. A livello politico, cioè di scelte concrete, esso rende invece ancora più chiara quella che è la filosofia che ispira la forza politica maggioritaria nel Paese, cioè il Movimento 5 Stelle, che ha messo fortemente (anche se non esclusivamente) il timbro sul pacchetto che è venuto fuori.

Dal primo punto di vista, il documento segna un’altra tappa, clamorosa e foriera di attriti o addirittura esplosioni, della sfida lanciata di fatto dal governo italiano all’Unione europea già con la questione dei migranti. Sul punto, in tutta franchezza, non me la sento di dar torto a Salvini: il progetto europeo è sostanzialmente fallito e prima le classi dirigenti europee ne prendono umilmente atto, meglio è per la stessa possibilità di creare nel nostro continente una collaborazione più solida fra i popoli che lo compongono e che hanno, pur nella diversità, un comune sentire che si è forgiato in una storia secolare di rapporti. Come ha spiegato molto bene Carlo Nordio, in un bel profilo di De Gasperi pubblicato qualche giorno fa su Il Messaggero, l’Europa come entità politica è entrata in crisi quando all’impostazione “spiritualistica” data al progetto europeo dai Padri fondatori, che dal punto di vista politico si inseriva in un più vasto orizzonte occidentalista e atlantista, se ne è sostituito una proceduralistica e razionalistica, ingegneristica, ove le regole erano state e sono stabilite dai rapporti di forza (per l’Italia penalizzanti) fra i singoli Paesi. In questo contesto, credo che oggi il sistema sia irriformabile in una direzione a noi più favorevole e che sia illusorio per noi credere di poter “cambiare le regole dal di dentro”. L’Italia non ha molti margini di manovra entro trattati che fanno comodo ai Paesi forti e che sono per noi sfavorevoli pur avendoli, e qui sta il paradosso della situazione, noi stessi firmati. Poco importa che ciò sia avvenuto per impreparazione delle nostre classi dirigenti e dei nostri negoziatori, oppure per l’illusione che gli interessi nazionali (che gli altri Paesi sapevano e sanno ben curare) non avrebbero avuto più corso, oppure per la suggestione esercitata su certa classe politico-intellettuale dal cosiddetto “vincolo europeo” che avrebbe di colpo risolto i vizi italici. Ciò che conta è che la “via interna” è per noi impraticabile, che l’Unione europea è diventata per l’Italia la “gabbia d’acciaio” di weberiana memoria. E gli stessi italiani, che non sono tutti stupidi e abbindolabili come con disprezzo li si descrive, hanno cominciato a vivere, da una decina di anni a questa parte, la sindrome dell’innamorato abbandonato e deluso. E Dio solo sa di cosa è capace e che rancore porta dentro di sé costui! D’altronde, anche una Italexit sarebbe probabilmente per noi insostenibile in questo momento, non solo in virtù del debito che ci portiamo dietro ma anche in considerazione del nostro scarso peso politico a livello globale. Siamo in una situazione che potremmo definire metaforicamente da “dilemma del prigioniero”. Da essa sinceramente non si vede via d’uscita.

Venendo invece al senso complessivo del documento programmatico, non c’è dubbio che in esso si fa sentire forte la visione del mondo, e quindi dell’economia, dei pentastellati. Si tratta di una filosofia statalista, redistributiva e assistenzialistica (di cui anche il bonus renziano degli 80 euro è stata espressione) che è nel nostro cuore di italiani (non siamo mai stati liberali) ma che è la stessa che ci ha portato al punto in cui siamo e che ormai non possiamo più permetterci. Una cultura che, in nome della lotta alla povertà (che si vorrebbe addirittura abolita per decreto), mette sullo stesso piano fannulloni e persone che si dannano l’anima per trovare un lavoro, demoralizzando i secondi e disincentivando in tutti quegli sforzi di miglioramento e costruzione autonoma del proprio futuro che hanno fatto grandi essi sì, non i “diritti”, le nazioni. Una cultura deresponsabilizzante e diseducativa. Non discuto, ripeto, perché non ne sono capace, la qualità economica dei singoli provvedimenti, ma la filosofia ad essi sottesa e trasmessa agli italiani. Il che è, in politica, elemento certo non irrilevante. Per questa parte, risulta a mio avviso confermato quel che vado dicendo da tempo: lungi dall’essere la novità o dal rappresentare il “cambiamento”, il Movimento 5 Stelle è, dal punto di vista delle idee, l’esito finale informe di una storia “ideologica” tutta italiana e per buona parte interna alla sinistra. La quale, proprio per questo, non sembra avere molti titoli di credibilità per alzare la voce.

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