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La battaglia iniziata attorno a Idlib, l’ultima roccaforte rimasta in mano all’opposizione siriana (sia quella più politica che quella predominante ideologico jihadista), è una cartina di tornasole eccezionale sulla quale emergono interessi, prospettive, ambiguità del conflitto.

E come nella gran parte delle cose successe in Siria in questi sette anni di guerra, giocano un ruolo centrale gli interessi di alcuni attori esterni. Per esempio, su Idlib un ruolo chiave ce l’hanno, insieme a Damasco e Teheran, Mosca e Ankara. I due paesi, che con l’Iran fanno parte del terzetto di Astana – il processo ideato dalla Russia in alternativa e concorrenza con quello delle Nazioni Unite per negoziare il futuro siriano – dal dicembre 2016 si sono trovati in un allineamento tattico e strategico fino a questo momento basato sulla pragmatica, che però la situazione a Idlib rischia di incrinare.

Russi e turchi sono su due posizioni piuttosto diverse: i primi sostengono il regime, e vogliono permettere la totale riconquista del territorio a Bashar el Assad, i secondi sono da sempre sponsor dell’opposizione. Entrambi però non vogliono perdere la faccia con la crisi di Idlib.

La Turchia, prima sostenitrice della definitiva decapitazione di Assad, da quando è entrata nell’ambito di Astana, ha edulcorato le sue posizioni pubbliche riguarda a Damasco (ma l’odio contro Assad resta, anche se sopito), cercando di lavorare sui gruppi ribelli in modo da isolarli dalle componenti estremiste – una su tutte la filo-qaedista Hay’at Tahrir al-Sham (HTS) – e renderli dei propri satelliti da gestire politicamente. Operazione non riuscita: anzi, si è verificato uno smottamento di alcune componenti delle milizie storicamente collegate alla Turchia verso le posizioni di HTS. Su questo fronte, Ankara è dunque in fase di stallo, invischiata fisicamente a Idlib, con unità militari regolari infiltrate (dal gennaio 2018) all’interno dei territori della provincia e lì rimaste (con 12 postazioni ufficialmente decise in una riunione del processo di Astana) nel tentativo di monitorare la situazione e far convergere sulla proprio strategia qualche gruppo.

Adesso i turchi hanno un interesse: chiudere la storia a Idlib nel modo più innocuo e decente possibile. Ankara rischia di subire sul piano dell’immigrazione contraccolpi interni pesantissimi, e per questo potrebbe accettare tacitamente le mosse russe, iraniane e siriane. Nell’ultima riunione di alto livello del terzetto di Astana, il 7 settembre, il presidente Recep Tayyp Erdogan ha chiesto agli altri due omologhi un cessate il fuoco, ma ha ricevuto risposta negativa; un calcio in faccia all’importante ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, che i giorni prima del vertice assicurava sui media che la crisi sarebbe stata evitata e che Iran e Russia avrebbero ascoltato le ragioni di Ankara; sempre lui, a fine agosto, al ritorno da una visita a Mosca in cui aveva parlato anche di Idlib, annunciava che i due paesi avevano raggiunto lo status di “partner strategici” (ora, a conti fatti, pare che la realtà sia distante dalla propaganda).

Idlib è una realtà molto complessa: nata come una delle de-escalation zone decise da Russia, Turchia e Iran, è diventata il collettore dei profughi interni siriani. L’idea di creare zone in cui non si sarebbe dovuto combattere – secondo le decisioni prese dal terzetto – per favorire riconciliazioni locali che avrebbero fatto da tasselli importanti sul puzzle globale (altre sono state Homs-Hama, Daraa’, Ghouta) è diventata una mossa tattica russo-iraniano-siriana per accorpare le opposizioni in recinti via via più circoscritti. Man mano che le truppe governative si muovevano su un territorio, si chiudevano patti, facilitati dai russi, basati su una pragmatica semplice: andatevene o sarà un massacro. Era il modo per costringere i ribelli a rifugiarsi altrove: così si limitava il fronte armato davanti alla non brillante consistenza degli assadisti.

I ribelli fuggiti si portavano dietro migliaia di civili, e il torpedone s’è ingrossato a effetto valanga fino a Idlib: una provincia che fino a una dozzina di mesi fa ospitava 800 mila persone se ne ritrova, a oggi, quasi tre milioni, tra combattenti e civili smobilitati da altri territori riconquistati dal regime. Ankara, che ospita già oltre tre milioni di profughi siriani, teme di doverne assorbire la gran parte nel caso di un’operazione spregiudicata dei lealisti siriani, perché sa che, caduta Idlib, chi non sta con gli Assad non avrà più nessun riparo, nemmeno effimero come le de-escalation zone.

È questa una delle ragioni per cui i turchi accettano l’azione contro le loro opposizioni sull’ultima delle roccaforti, cercando di costruire i presupposti per evitare il peggio. Poi c’è una doppia questione politica: Ankara sa che, una volta presa Idlib, il regime siriano si troverà a dover trattare sul cantone di Afrin, dove i soldati turchi hanno lanciato tempo fa un’operazione di successo per sopprimere la presenza territoriale dei curdi siriani che avevano riconquistato quelle zone al Califfato (con l’aiuto americano), e ora controllano l’area. Attualmente si parla di ciprizzazione del nord della Siria, perché difficilmente Erdogan accetterà di chiudere con Damasco qualcosa meno di un protettorato turco su quella fascia settentrionale confinante, che si affaccia sul Mediterraneo orientale (area tra l’altro strategica perché di fronte alle grandi risorse energetiche del bacino).

Dall’altra parte c’è la Russia: Mosca, sia per ragioni di interesse profondo che di immagine, non accetta altro che una vittoria su Idlib – e questo la Turchia lo sa, e anche per tale ragione Ankara sembra non voler forzare troppo la mano, almeno al momento, almeno davanti alla possibilità di un’azione contingentata in cui la Turchia (che significa: le opposizioni che i turchi sostengono) non uscirà da assoluto sconfitto. Possibilità: il regime riconquista la gran parte della provincia, affossa le milizie radicali e il processo di Astana permette la costruzione di zone franche che i turchi possono mettere sotto il controllo di gruppi fidati e in cui accasare i civili.

I russi sanno che occorre evitare l’umiliazione per Erdogan, perché la vicenda di Idlib si porta dietro un equilibrio ancora più delicato: Ankara ha accettato di entrare nel processo di Astana infuriata con l’Occidente – sul cui asse prima era allineata – che, secondo Erdogan, l’aveva lasciata sola sulla Siria e addirittura aveva sobillato il colpo di stato del luglio 2016. Lo spostamento dell’orbita turca ha creato problemi e crucci: la Turchia è un paese Nato, che custodisce testate nucleari strategiche americane e che ha patti di cooperazione con l’Europa.

Un avvicinamento alla Russia è un asset importante per il Cremlino, che cerca di minare continuamente il sistema occidentale: ma a Mosca sanno che se i turchi dovessero subire gli effetti della battaglia di Idlib – immigrazione incontrollata, umiliazione pubblica per non essere stati ascoltati dai nuovi alleati, contraccolpi sulla sicurezza interna con i gruppi ribelli siriani che agiscono contro la Turchia per rappresaglia – Erdogan potrebbe spostarsi di nuovo e tornare verso occidente.

Negli ultimi giorni, il presidente turco ha usato le pagine del Wall Street Journal per diffondere il suo messaggio: in un op-ed ha ammonito i suoi partner del processo di Astana sulle responsabilità per eventuali crisi umanitarie. Un annuncio che suona simile a quello dell’americano, Donald Trump, che ha avvisato già di ripercussioni nel caso di uso di armi chimiche, ottenendo il sostegno, già operativo con accordi e piani di attacco, di Regno Unito e Francia (e probabilmente Germania), secondo quanto detto dal consigliere per la Sicurezza nazionale, John Bolton.

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