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“Trump è stato un outsider per il sistema politico americano, ripercorrendo alcune caratteristiche di un leader nostrano come Silvio Berlusconi: è un miliardario, conosce a menadito i mezzi di comunicazione di massa, è stato popolare in tv in passato”. Così Edoardo Novelli, professore associato di Comunicazione Politica all’Università Roma Tre, autore di “Le campagne elettorali in Italia: protagonisti, strumenti, teorie” spiega l’ascesa del Presidente americano. Novelli ha analizzato differenze e similarità che hanno caratterizzato i modelli di comunicazione politica italiani ed americani dal dopoguerra ad oggi, tracciando le evoluzioni nelle tecniche utilizzate, fino ad arrivare a quella che chiama la comunicazione politico-emozionale.

Professor Novelli, partiamo dall’era pre-televisiva: quali sono state le principali discrepanze tecniche tra gli asset della comunicazione politica italiana e quella americana?

Le linee di tendenza della comunicazione politica tra Italia e Usa nella fase pre-televisiva sono più o meno simili, ma con delle specificità locali. In Italia abbiamo avuto dei partiti di massa molto solidi che hanno resistito a lungo, avendo potuto giovare di una partecipazione popolare molto presente. Negli Usa invece già dal dopoguerra i partiti si sono formati come organizzazioni elettorali in cui il candidato perseguiva la “politica delle strette di mano” venendo a contatto fisico con migliaia di potenziali elettori.

Come sono cambiati gli scenari nei due paesi con l’avvento della tv?

Negli Stati Uniti la trasformazione causata dalla tv avvenne anticipatamente rispetto a quanto non accadde in Italia. Infatti, la televisione era già privata oltreoceano e ragionava con logiche commerciali: già dal primo dopo-guerra comparvero gli spot di Dwight Eisenhower. Poi, negli anni ’60, la tv ridefinì i modelli del dibattito politico con il famoso confronto “Nixon contro Kennedy”. Nello stesso periodo, in Italia, la tv era controllata dal governo ed includeva l’inclusione delle campagne elettorali secondo delle logiche di tutela dei valori, nel tentativo di costruire una scena autorevole e prestigiosa. L’utilizzo di strumenti come la tv aveva una accezione “pedagogica”, con un allargamento del circuito della partecipazione popolare ed una simultanea inclusione degli italiani alla rappresentazione democratica.

Nel suo ultimo volume ha scritto che negli anni ’60 la tv svolgeva in America un ruolo che non aveva ancora in Italia: perché nello Stivale era meno sfruttato?

L’impatto della televisione sulla nostra società era fortissimo: si diceva infatti che la tv “insegnava l’italiano agli italiani”. Per scelta, non venne però dato subito spazio alla politica, la quale controllava il flusso di informazioni e non aveva intenzione di sfruttare questo medium per fini elettorali. Diversamente, in America, non essendo dipendenti da un soggetto politico, le tv a scopo commerciale trasmettevano i dibattiti politici, anche se solamente qualora rientrasse nel loro interesse, ossia se ritenessero che potesse fare “audience”. Non a caso, le prime file delle conventions erano riservati alle telecamere. Il vero pubblico non era quello presente in sala, ma quello a casa.

Negli anni Ottanta cambiò qualcosa.

Negli ’80 iniziò una trasformazione epocale: alcuni elementi come gli spot e la spettacolarizzazione del messaggio arrivarono anche in Italia grazie allo sviluppo della televisione commerciale. Dopodiché, nel 1994 recuperammo il terreno perso procedendo con lo sviluppo delle prime campagne di marketing e di vari strumenti che indussero ad un cambiamento della logica del campaigning.

Nello suo studio della storia della comunicazione politica italiana ha individuato 5 macro-sezioni: quante ne potrebbe prevedere il modello Usa?

Sostanzialmente tre. Il sociologo Blumer indicò le fasi pre-moderna, moderna e post-moderna, mentre Pippa Norris con la divisione in pre-televisive, televisive e post-televisive. Questi due sociologi hanno unificato due elementi come modernità e televisione. In Italia invece abbiamo due fasi più distinte da questo punto di vista: la fase della televisione monopolistica degli anni ’60 mutò appunto in televisione commerciale. Adesso si sta aprendo, per tutte le realtà, italiana ed americana, una nuova realtà della comunicazione politica con la rete.

“Emma for President”: perché la campagna elettorale per spingere la leader radicale Bonino alla Presidenza della Repubblica nel ’99 è stata da lei definita “all’americana”?

Quella campagna nacque con dei criteri e degli standard completamente differenti, non avendo inizialmente un partito che la supportava e creando un comitato, come da formula americana. Nonostante non fosse neanche conforme alla Costituzione, quella campagna vide la Bonino utilizzare degli opinion-leader esterni provenienti dal mondo del consumo, della pubblicità, della moda e della cultura. Fu una campagna di pressione che iniziò un rapporto dialogico con i media che erano interessati al “nuovo”. L’utilizzo dei sondaggi e di altri strumenti tecnici per fare pressioni sull’opinione pubblica venne svolta attingendo in maniera diretta alle competenze delle campagne americane. “Emma for President” costituì un escamotage che dimostrò la trasformazione del campaigning in Italia nel tentativo di utilizzare l’opinione pubblica contro il “palazzo”.

Oggi c’è Trump: la sua strategia comunicativa attuale può essere comparata a quella di altri leader, presenti o passati?

Trump sostanzialmente non è stato un candidato Repubblicano naturale né tantomeno era amato dal partito, ma è riuscito ad imporsi grazie ad una serie di risultati ottenuti nei primi cicli elettorali. Trump è stato un outsider per il sistema politico americano, ripercorrendo alcune caratteristiche di un leader nostrano come Silvio Berlusconi: è un miliardario, conosce a menadito i mezzi di comunicazione di massa, è stato popolare in tv in passato. La sua capacità di utilizzo della rete gli permette di entrare in contatto con una parte di elettorato che non legge più i quotidiani, che non è interessata alla politica, che rifiuta autorità e mediazione e vuole stabilire un rapporto diretto con il leader. Trump è riuscito ad entrare in contatto con i loro sentimenti e, grazie alla sua capacità comunicativa, a diventarne rappresentante.

Democrazia diretta e comunicazione digitale: i nuovi strumenti mediatici hanno secondo Lei peggiorato il livello della qualità democratica?

Non siamo ancora in grado di dirlo. Internet, che si pensava avrebbe rappresentato una grande palestra di democrazia, partecipazione e confronto, è ormai diventato luogo e mezzo di scontro tra bande, in cui vige il concetto dell’“omofilia”, un posto cioè in cui si sta tra i propri simili, in cui si è restii ad entrare in contatto con opinioni diverse. È vero però che le competenze richieste per partecipare a questo “gioco” sono estremamente basse. Si può affermare che è in corso un allineamento tra il “political engagement” e l’“entertainment engagement”, ossia quello utilizzato dai programmi di intrattenimento televisivi.

Sostanzialmente, viviamo nell’era della comunicazione politico-emozionale.

Assolutamente sì, la comunicazione politica si è spostata sul lato emotivo. Ho presentato una ricerca sull’utilizzo del simbolo del ”cuore” e della parola “amore”. In Italia lo hanno avuto Marchini, Storace e molte altre liste minori in molte campagne. Giorgia Meloni ha postato sui suoi canali social la foto di un “cuore” più volte. Questa dimensione privata-affettiva supplisce alla dimensione politico-ideologica che si è gradualmente sfarinata.

Ecco come è cambiata la comunicazione dei leader politici dal dopoguerra a oggi

“Trump è stato un outsider per il sistema politico americano, ripercorrendo alcune caratteristiche di un leader nostrano come Silvio Berlusconi: è un miliardario, conosce a menadito i mezzi di comunicazione di massa, è stato popolare in tv in passato”. Così Edoardo Novelli, professore associato di Comunicazione Politica all’Università Roma Tre, autore di “Le campagne elettorali in Italia: protagonisti, strumenti, teorie”…

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