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Si sente nell’aria (dei tempi) una pronunciatissima voglia di uomo forte. O forse nostalgia, come ci insegna il grande Max Weber; e non soltanto lui, dal momento che l’idealtipo del grande uomo (tendenzialmente coincidente con una figura di etologico maschio alfa) ha occupato in toto il pensiero politico della modernità, dalla figura del grande legislatore russoviano al superuomo nietzscheano, dall’eroe dell’antivittoriano Thomas Carlyle (che lo preferiva nettamente alla triste scienza economica) fino, per l’appunto, al weberiano capo carismatico. Un aspetto che risultava molto chiaro anche al contraltare dell’aspirazione verso tale figura, vale a dire il filone che, dalla psicologia delle folle di Harold Lasswell ed Erik Erikson, individuava in tale desiderio sostanzialmente una forma  di scompenso psichico o di problematica psicologica irrisolta delle masse.

Un eterno ritorno, dunque, all’insegna di dinamiche oscillanti e cicliche, di un format che si rivela incessantemente presente nella storia politica. E che, in età di campagna elettorale permanente e di postmodernizzazione della politica, si è intrecciato con i processi di personalizzazione (per  cui l’uomo forte è anche un brand) e di mediatizzazione, dando vita a una versione nella quale la faccia feroce si rivela spesso, nell’attuale clima di opinione, anche glam per i simpatizzanti di questi uomini forti. Alcuni dei quali, come ha titolato una copertina del settimanale l’Economist di giugno giustapponendo i ritratti di Putin, Orban, Duterte ed Erdogan, “sovvertono la democrazia”.

Il salto di qualità della ricerca di un leader in dimensione salvifica da parte di vasti settori dell’elettorato e dell’opinione pubblica si può considerare come l’esito di due trasformazioni, una di natura politica e l’altra culturale (e cognitiva). La politica dell’età contemporanea in Europa si  è organizzata intorno ad alcune fratture sociali, quelle da cui sono nati i partiti che hanno strutturato i sistemi politici per come li abbiamo conosciuti, tra alti e  bassi, sostanzialmente fino ai giorni nostri, e che sono state identificate dalla teoria dei cleavages di studiosi come Stein Rokkan e Seymour Martin Lipset. Tali fratture, che hanno descritto molto bene la natura dei conflitti sociali e la tipologia degli imprenditori politici che hanno dato loro voce e rappresentazione fino a poco tempo fa, si trovano ora affiancate, e sempre più frequentemente sovrastate, da alcune ulteriori e nuove fratture, a partire da quella fondata sulla contrapposizione fra élite e popolo.

Un cleavage alimentato anche dalla spinta verso la disintermediazione di questi ultimissimi decenni, e che viene sussunto all’insegna di un rapporto neoplebiscitario tra i nuovi uomini forti e il “loro” popolo, complici anche l’autocomunicazione di massa e l’orizzontalizzazione connaturata ai social network. A garantire un vasto consenso al paradigma del neo-uomo forte (che, in Italia, si presenta nella fase odierna soprattutto con le sembianze del leader della Lega e ministro dell’Interno Matteo Salvini) è anche quella politica dell’identità che sta pesantemente ridefinendo in occidente alcuni settori dei sistemi politici delle nostre indebolite democrazie liberal- rappresentative. L’identità culturale surroga di fatto l’ideologia (che era internazionalista, ovverosia globale) e si esprime nel conflitto tra chi la rivendica come un sistema chiuso e non contaminabile (i sovranisti, e la stragrande maggioranza dei populisti), e chi, invece, la ritiene aperta e incessantemente soggetta a ibridazioni e contaminazioni (i cosmopoliti).

La seconda trasformazione investe, invece, un livello culturale: di fronte alla complessità esponenzialmente crescente dei problemi del mondo di oggi, l’uomo forte si propone come un filtro cognitivo che propone spiegazioni e ricette semplificate (e, assai spesso, semplicistiche, con i rischi conseguenti per la tenuta della coesione civile delle nostre affaticate e impaurite società).  Ma l’uomo forte – variamente declinato – costituisce una sorta di lasciapassare  trasversale della post-politica di questi anni. Basti pensare a Pablo Iglesias, leader di Podemos, o all’operazione politica in corso che ha quale perno l’ex ministro greco Yanis Varoufakis. E, quindi, con tale rinnovato (e, per molti versi, sempiterno) paradigma bisogna necessariamente fare i conti.

Non solo Salvini. Perché tocca fare i conti con l’uomo forte in (post) politica

Di Massimiliano Panarari

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