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Con ogni probabilità, sarà un “autunno caldo”. Ma non una riedizione degli anni ‘70. Quando sembrava che tutto era possibile. Compresa l’immaginazione al potere. Al contrario sarà un periodo di grande incertezza. Con l’Italia al centro di un possibile vortice dagli esiti imprevedibili. Le nubi, che fin da ora, si addensano all’orizzonte lo stanno, in qualche modo, anticipando. Anche se non tutte annunciano tempesta. Nonostante i tragici fatti di Genova e le conseguenze che da quella grande e sfortunata tragedia sarà necessario trarre.

Se il Wall Street Journal, nel celebrare una ritrovata stabilità, dopo l’uscita della Grecia dal suo lungo commissariamento, ricorda che questa volta è la situazione italiana il maggior fattore di instabilità per la moneta unica. Moody’s, l’agenzia di rating, decide di rinviare ad ottobre le sue pagelle per l’Italia. Forse nella speranza di poter evitare un ulteriore downrating, che declasserebbe i titoli italiani a rango di junk bond: titoli spazzatura che nessun Ente creditizio accetterebbe come collaterale. Vale a dire come garanzia per gli eventuali finanziamenti.

Tutti in attesa, quindi, di conoscere le decisioni effettive del Governo. Se rispetterà o meno i vincoli finanziari, imposti non tanto dell’Europa, quanto dal sentiment del mercato. Distinzione necessaria per spiegare un’anomalia, su cui ben poco si è riflettuto. Molti Paesi, infatti, dalla Francia alla Spagna, non hanno rispettato i parametri di Maastricht, con un deficit di bilancio andato ben oltre il 3 per cento. La Commissione europea, non ha esitato a decretare una “procedura d’infrazione”. Ma i mercati se ne sono semplicemente infischiati, come mostra la dinamica di uno spread che non ha mai creato alcun pagatema d’animo.

C’è da aggiungere che il debito pubblico di entrambi era notevolmente inferiore a quello italiano. Ma dal 2008 in poi l’accelerazione verso l’alto è avvenuta ad un ritmo addirittura superiore a quello del Bel Paese. Un piccolo enigma che può essere spiegato solo con un’attenta ricostruzione delle politiche economiche dei due Paesi. Un conto, infatti, è fare debito per distribuire bonus o salari di cittadinanza. Varia lo schema ma il significato è identico. Un altro è utilizzare i maggiori margini finanziari per realizzare investimenti e ridurre il carico fiscale, quando eccessivo, per favorire la crescita del Pil.

C’è poi un altro elemento da considerare. La Grecia esce dalla crisi nel momento in cui riduce drasticamente la sua domanda interna con una politica di lacrime e sangue, per annullare il suo deficit della bilancia dei pagamenti e ritrovare una posizione di equilibrio. L’Italia, da questo punto di vista, è agli antipodi. Il suo limitato tasso di crescita è conseguenza dell’eccessivo ristagno della sua domanda interna. Dal quale deriva un surplus strutturale delle partite correnti della bilancia dei pagamenti. Rilanciare lo sviluppo, come suggerisce lo stesso Fmi, significa puntare al suo progressivo assorbimento, grazie al maggior dinamismo del suo mercato interno, sostenuto da politiche espansive.

É auspicabile che di tutto ciò si possa discutere in autunno, sulla base di un quadro programmatico dell’economia nazionale, elaborato su basi non convenzionali. Affrontando, con l’Europa, il necessario confronto su basi diverse dal passato. Non l’accettazione supina di vincoli e balzelli, ma il rinnovato rigore di uno schema di politica economica, che può essere facilmente dimostrato. Forse non servirà, visto il tasso di ortodossia dominante. Fornirà tuttavia una diversa indicazione ai mercati, in grado di far comprendere da che parte è la ragione. Specie se si considerano i diversi tentativi, di Giovanni Tria e Paolo Savona, di rivolgere lo sguardo altrove (Cina e Russia) per ottenere gli eventuali appoggi finanziari.

Argomento quanto mai delicato. Lo scambio, in questo caso, non può essere di natura politica: ruolo di supplenza finanziario contro concessioni di vario tipo. Aprirebbe la strada a contestazioni particolarmente pericolose. Si deve rimanere, invece, sul terreno economico e finanziario. Se la Commissione europea non è in grado di comprendere le buone ragioni italiane per una politica espansiva, salvo tutti i controlli ch’essa richiederà, è bene che finanziatori meno prevenuti e più innovativi possano fare il loro mestiere. Che è quello di investire su politiche ritenute migliori. Si vedrà, allora, che gli esami non riguardano solo il Bel Paese. Ma l’intera costruzione europea, da troppo tempo, ripiegata su se stessa. Mentre il mondo sta cambiando con una velocità impressionante.

elettori

Perché l’Europa dovrebbe sostenere la politica espansiva dell’Italia

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