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L’abbattimento questo weekend di un jet Su-25 russo da parte dei ribelli nella provincia siriana di Idlib rappresenta uno sgradevole grattacapo per Vladimir Putin. Perché lo zar la partita l’aveva dichiarata chiusa e per ben due volte: prima a novembre, quando convocando la conferenza di Sochi aveva annunciato ai suoi alleati turchi e iraniani che era giunto il momento di passare agli accordi di pace, e poi il mese successivo con una visita lampo in una base aerea siriana dalla quale aveva dichiarato “mission accomplished” e annunciato il parziale ritiro delle forze dal teatro.

Adesso il Ministero della Difesa di Mosca, chiamato a compiere le indagini sull’incidente, deve rispondere a quattro domande spinose da cui dipenderà la prosecuzione della guerra e molto altro: chi è stato, come è potuto accadere, come i militanti hanno acquisito le armi e se dietro l’attacco c’è una potenza ostile.

La prima risposta è la più semplice da fornire. Nella provincia di Idlib operano svariate formazioni ribelli, dai qaedisti di Hayat Tahrir al-Sham, all’Esercito Siriano Libero, a Jaish al-Nasr. È stato i comandante di quest’ultimo, Alaa al-Hamwi, a rivendicare la responsabilità dell’’attacco, sostenendo che le armi in possesso del gruppo servono per proteggere la popolazione dagli assalti aerei russi. In verità, però, una rivendicazione non meno attendibile è quella fatta successivamente da Hayat Tahrir al-Sham, la succursale di al Qa’ida in Siria, cui non mancano certo le motivazioni per compiere uno sfregio nei confronti di un nemico verso cui prova un odio atavico.

Secondo i primi accertamenti, l’aereo sarebbe stato abbattuto con un sistema anti-missile portatile, di quelli che si indossano sulla spalla. Il che implica che qualcuno l’abbia messo a disposizione degli utilizzatori finali. Tra le ipotesi che si fanno c’è quella di un pezzo di fornitura americana arrivato per chissà quale percorso, mentre altre ipotesi prendono in considerazione armi sovietiche catturate dai terroristi in depositi dell’esercito siriano o fornite dalla Turchia, dal Qatar o dall’Arabia Saudita. Secondo Dmitry Sablin, capo del gruppo di coordinamento parlamentare russo-siriano, il missile sarebbe arrivato invece via terra da uno stato adiacente alla Siria.

Ma è la sindrome antiamericana quella che va per la maggiore dalle parti di certi quartieri di Mosca. Frank Klintsevich, primo vice-presidente della commissione Difesa e Sicurezza del Senato, dice di essere “assolutamente certo” che i MANPADS (man-portable-air-defense systems) “sono stati forniti ai terroristi dagli Stati Uniti attraverso paesi terzi”, Klintsevich aggiunge che anche altri paesi occidentali possono essere interessati ad ingerire in questo modo negli affari siriani.

“Oggi”, ha aggiunto Klintsevich, “stiamo affrontando un processo molto complicato, e le provocazioni sono un utile strumento. La situazione nell’area è sotto controllo turco” e l’abbattimento del jet “potrebbe essere servito per esacerbare i disaccordi tra Russia e Turchia.

La linea di pensiero secondo cui ci sarebbe lo zampino americano è confermata da altre supposizioni che circolano in questo momento a Mosca, dove si ritiene che Washington desideri deragliare le iniziative russe come i colloqui di Sochi. Un recente comunicato stampa del Ministero degli Esteri russo diceva che “è alquanto ovvio che gli Stati Uniti hanno un forte desiderio di mettere in atto in Siria lo scenario già applicato nella ex Jugoslavia, in Iraq e in Libia.

Nonostante queste congetture, è ancora forte a Mosca il partito di chi vede con favore la possibilità di un rapporto più cooperativo con l’America di Donald Trump. La scorsa settimana, i capi delle principali agenzie di sicurezza russe erano a Washington, da Sergey Naryshkin del Foreign Intelligence Service a Igor Korobov, capo dell’intelligence militare. Si sono trovati a tu per tu con il direttore della Cia Mike Pompeo e hanno discusso la prospettiva di migliorare la collaborazione su vari fronti. Sulla stessa linea la dichiarazione dell’ambasciatore russo negli Stati Uniti Anatoly Antonov all’agenzia di stampa RIA Novosti: Mosca “è pronta a incrementare la cooperazione con gli Stati Uniti in Siria”. Non sarebbe questo, insomma, il momento propizio per gli americani per un colpo gobbo, visto che il frutto della collaborazione con lo zar sembra maturo.

Se non sono stati gli americani, chi allora? Sul banco degli imputati potrebbe salire la Turchia di Recep Tayyp Erdogan. Tra lo zar e il sultano le frizioni non mancano: dai disaccordi sulla modalità di gestione della “de-escalation zone” di Idlib, al recente bombardamento della base aerea russa di Khmeimim, sino alle opposte visioni sul futuro della Siria da mettere in campo nei colloqui di Sochi e, eventualmente, a Ginevra. E c’è poi, dato da non dimenticare, il precedente del Sukhoi abbattuto dalla Russia nel novembre 2015. Il fatto comunque è che Mosca ha bisogno della Turchia, che coltiva strette relazioni con praticamente tutti i gruppi di ribelli di Idlib, come confermato dalla richiesta di aiuto fatto dall’esercito russo a quello turco per il recupero della salma del pilota del Su-25.

Insomma, l’abbattimento del Su-25 ha innescato una piccola psicosi in Russia, che ora non si vede più invincibile in Siria come appena due mesi fa, il giorno della proclamazione della vittoria da parte dello zar. Anche se tutto, alla fine, potrebbe risolversi in un bicchiere d’acqua.

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