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E se cominciassimo dalla “fine della storia? Con la caduta del Muro di Berlino e il crollo dell’impero sovietico era sembrato potesse aprirsi l’era della vittoria definitiva delle democrazie liberali. Alla nuova Russia sarebbe toccato un ruolo di importante attore nel coro, impegnata com’era a trasformare la propria economia secondo le regole del mercato e a sostituire ai vecchi canoni ideologico-politici della tradizione sovietica quelli sanciti dal nuovo unipolarismo a trazione americana. Per un po’ sembrò che le cose potessero andare così; ma non per molto.

Era illusorio ritenere che la Russia si sarebbe adattata senza colpo ferire a un così drastico ridimensionamento: la Gran Bretagna, dopo oltre sessant’anni, non ha metabolizzato appieno la perdita del suo impero; difficile pensare che Mosca potesse rassegnarsi di colpo alla caduta del suo. I boiardi della nuova Russia ricordano per più versi i robber barons che, a cavallo fra Ottocento e Novecento, fecero dell’America una grande potenza industriale; ma qui il sistema si è rivelato troppo sclerotico e corrotto per reggere un’operazione paragonabile, a vantaggio dello sviluppo economico, mentre la globalizzazione si è incaricata di fare giustizia dell’ipotesi.

NOSTALGIA DEL PASSATO
A un Paese sconfitto, attraversato da una profonda crisi e in cui le aspettative di futuro si mescolavano alla nostalgia per il passato, un nazionalismo dal forte carattere identitario poteva offrire la chiave per recuperare immagine e affrontare le difficoltà.  È quanto ha fatto Vladimir Putin, con una politica che ha interpretato il sentimento di una parte significativa della popolazione e corrisponde, con ogni probabilità, alle le sue personali inclinazioni.

Quella russa non è una democrazia liberale, a riprova del fatto che fra di essa e il capitalismo la coincidenza non è automatica; è un ibrido in costante evoluzione (non necessariamente positiva) che raccoglie consenso nel Parlamento e nel Paese. Robert Blackwill e Philip Gordon hanno parlato di “nuova Guerra Fredda” a proposito dei rapporti russo-americani di oggi: il confronto è tornato ma c’è una differenza di peso. Allora si poneva in termini di scontro ideologico fra “noi” e “loro”; oggi si svolge all’interno di un “noi” cui, per quanto slabbrato, tutti continuano a riferirsi.

Il progressivo disimpegno di Obama ha aperto delle falle nella proiezione mondiale degli Stati Uniti, evidenti già prima che le intemperanze di Trump le rendessero più esplosive. Le difficoltà dell’Europa, fra crisi finanziaria e frammentazione del quadro politico dell’Unione, l’hanno resa più vulnerabile a pressioni, in particolare sotto il profilo energetico. Putin ha saputo sfruttare un vantaggio che comunque gli era stato dato.

Con la fine dell’Urss, la Turchia si è trasformata da guardiano efficiente e silenzioso della periferia sud-orientale della Nato, in protagonista di un’area in cui ha esercitato per secoli una forte influenza. L’Occidente avrebbe fatto bene a riconoscerle tale ruolo e invece tanto l’Alleanza Atlantica come (per altrui versi) l’Ue hanno continuato a dare per scontata l’affidabilità occidentale di Ankara, fidando nell’anima kemalista delle sue élites e sottovalutando gravemente l’impatto del nazionalismo neo-ottomano rappresentato da Erdoğan. Con il risultato che, dopo un secolo, la fine del patto Sykes-Picot viene gestita in un quadro di collaborazione antagonistica fra Ankara e Mosca.

RAPPORTO PARITARIO E CONSENSO INTERNO

Russiagate, cyberspionaggio e hacking elettorale hanno creato un allarme comprensibile ovunque, ma soprattutto negli Stati Uniti, per cui la semplice idea che il territorio nazionale possa essere in qualche modo violato è inaccettabile tanto politicamente per qualsiasi governo, quanto psicologicamente per l’opinione pubblica. L’osservazione che chi di hacking ferisce prima o poi di hacking perisce, con gli Usa non tiene; se davvero Putin ha organizzato una simile operazione, si è trattato di un errore politico grave, reso ancor più intrattabile dai rumors sul Russiagate che – al di là di quanto potrà incidere sulla presidenza Trump e sull’uso che ne faranno l’opposizione interna repubblicana e i democratici – rendono un suo superamento complesso.

All’affermazione americana di un’egemonia capace di garantire l’invulnerabilità sul suo territorio, si contrappone quella di Vladimir Putin, secondo cui il rango e la potenza della Russia – per quanto con vistosi rattoppi – legittimano l’uso paritario di tutti gli strumenti di pressione disponibili. Questo del rapporto paritario è una costante della politica putiniana: in termini assoluti può apparire scarsamente fondata, ma dal punto di vista della costruzione del suo consenso interno no.

I confini delle vecchie repubbliche sovietiche erano stati tracciati, e modificati, in maniera spesso proditoria, con grande indifferenza per minoranze perseguitate. Ridisegnarle dopo la fine dell’Urss appariva politicamente improponibile: sarebbe dovuto toccare alla nuova comunità di Stati europei che si andava creando, assicurare un quadro multilaterale di cooperazione in cui inserire anche la nuova collocazione degli ex Paesi satelliti.

L’allargamento della Nato e il Consiglio Nato-Russia avrebbero fornito il quadro per un corretto svolgimento di un processo accettato da Mosca più per necessità che con entusiasmo. Il riapparire di problemi territoriali che si pensavano rimossi, come le posizioni assunte da alcuni Paesi una volta recuperata la piena indipendenza, non hanno tardato a mettere in crisi il meccanismo: cavalcare l’onda dei micro-nazionalismi rinfocolando vecchie nostalgie è sembrato a Putin un buon modo per riequilibrare almeno in parte un baricentro che si andava spostando pericolosamente in direzione opposta. Il tutto senza scossoni ingovernabili finché si è rimasti nelle periferie ma, nel momento in cui con l’Ucraina si è toccata la vecchia linea di faglia del confronto Est-Ovest, le cose sono cambiate.

CONTENIMENTO DI MOSCA

E allora? Come può e deve essere il nuovo limes europeo?

Parlando di nuova Guerra Fredda, Blackwill e Gordon propongono una strategia di doppio binario: risposta dura e di contenimento su tutti i fronti (anche con lo strumento militare); apertura a contatti atti a smorzare la tensione nel reciproco interesse. Un mix che richiama gli schemi del vecchio confronto Est-Ovest, anche se il quadro è diverso: non c’è più la garanzia di stabilità implicita data dall’equilibrio del terrore e ad essa si è sostituita una volatilità dovuta alla pluralità di attori non sempre affidabili.

Gli accordi sulla riduzione degli armamenti in Europa avrebbero dovuto costituire il fondamento della nuova realtà cooperativa e sono andati invece progressivamente sbiadendo nella percezione collettiva. Ora che si torna a parlare concretamente di minacce militari e si profilano all’orizzonte armi letali, ad un tempo sofisticatissime e di impiego più agile, è imperativo richiamare Mosca al loro rispetto uscendo dall’ambiguità. Allo stesso titolo, se è vero che il termine democrazia rappresentativa viene coniugato sempre più in termini diversi e spesso preoccupanti, non per questo perdono di efficacia gli strumenti destinati ad assicurarne il funzionamento, a partire da quello elettorale. Anche qui si impone un energico richiamo all’ordine.

La Russia non può pretendere di modificare unilateralmente l’equilibrio europeo, né può ragionare in termini espliciti di aree di influenza. Ciò detto, che si tratti di un grande Paese il cui ruolo è importante per la stabilità del continente, è un fatto. La sovranità dell’Ucraina non deve essere messa in discussione e le violazioni del suo territorio storico non possono essere condonate: al tempo stesso è anche un fatto che questo Paese è attraversato dalla linea di faglia di cui si parlava prima: resta da capire se l’Ucraina nella Nato sarebbe una componente essenziale della sicurezza dell’Occidente. Toccare la questione delle minoranze e dei confini nel territorio ex sovietico è come entrare in un nido di vespe: ciò detto, sulla situazione della Crimea, sovietica sino a quando fu “donata” da Khrushev, vi può essere spazio per approfondire.

COESISTENZA PIÙ CHE COLLABORAZIONE

L’Atto Finale di Helsinki della Csce aveva definito il recinto entro il quale i due blocchi potevano collaborare, senza porre in gioco i rispettivi interessi fondamentali. Funzionò, perché si applicava a un conflitto ormai consolidato, in cui si inseriva uno scambio politico basato sul riconoscimento dell’influenza sovietica in Europa centrale da un lato, e una apertura in materia di diritti umani e libertà individuali dall’altro. La successiva Carta di Parigi avrebbe dovuto governare il superamento definitivo della logica dei blocchi, Non ce ne fu bisogno perché, complice la crisi jugoslava, la transizione durò mesi e non anni. Ora che il confronto riappare – sia pure in altre vesti – quella logica e quegli strumenti possono tornare di attualità.

La Russia non è più la nazione sconfitta della fine del secolo scorso. Ritiene di avere buon diritto di recuperare, in una logica paritaria da potenza globale, quanto più possibile degli spazi perduti. Prendere atto che l’unipolarismo è morto non significa accettare la logica espansionistica di Mosca: essa va respinta definendo i paletti di un rapporto che si annuncia più di coesistenza che di collaborazione.

La carta geopolitica dell’Europa è cambiata e deve essere accettata da tutti, ma ciò non esclude che al margine possano essere ricercati spazi di stabilizzazione. Lo si può fare in una logica di contrapposizione dura, lasciando ad essa la fissazione dei termini; lo si può fare anche – se del caso in parallelo – con altri strumenti. Le “ambiguità costruttive” del sistema Csce e oggi Osce, si fondavano sull’interpretazione dinamica del nesso fra sovranità da un lato, e diritti democratici e sicurezza dall’altro.

Capire quanto esse siano riproponibili oggi per individuare nuove e sempre più necessarie “regole del gioco” potrebbe dare il destro alla presidenza italiana dell’Osce nel 2018 per svolgere un’azione non banale.

(Articolo pubblicato da Affarinternazionali)

 

 

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