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Tutti vogliono parlare con lui dopo la caduta del regime siriano di Bashar Al Assad. Nelle ultime ore, Hakan Fidan, ministro degli Esteri turco ed ex capo del servizio unico d’intelligence (Mit), ha sentito, tra gli altri, l’omologo americano Antony Blinken, quello egiziano Badr Abdelatty e quello italiano Antonio Tajani ma anche António Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite. Ankara ha sostenuto i ribelli ma considera Hayat Tahrir al-Sham, il gruppo islamista di Mohammed al-Jolani, un’organizzazione terroristica (come fanno le Nazioni Unite e gli Stati Uniti). E se è uscita vincitrice dal rovesciamento del regime di Assad è anche, e forse soprattutto, merito suo. Gli incontri che ha svolto come capo della diplomazia turca, dal suo insediamento nel giugno scorso, mostrano chiaramente la strategia tessuta attorno alla Siria.

D’altronde, Fidan conosce come pochi il dossier Siria, avendolo gestito per anni al servizio d’intelligence, che ha guidato dal 2010 al 2023, e coordinando operazioni di intelligence e militari contro le milizie curde, considerate dal governo Erdogan un’estensione del Pkk. Ha giocato un ruolo fondamentale nella strategia della Turchia per creare una zona di sicurezza nel Nord della Siria. Inoltre, sul fronte intelligence-diplomatico, è stato l’artefice di negoziati dietro le quinte con Paesi come Israele, Egitto e gli Emirati Arabi Uniti, aprendo la strada alla normalizzazione delle relazioni.

È lui a dare le carte ora, o quantomeno sembra ritenere di essere l’unico in grado di farlo: la Turchia sostiene i gruppi ribelli protagonisti dell’offensiva lampo contro il regime, mentre la Russia ha accolto il dittatore in fuga e l’Iran è stato ridimensionato. Lunedì ha chiesto la “formazione di un governo inclusivo” in Siria. Il suo auspicio è quello di “una nuova Siria che mantenga buone relazioni con i suoi vicini e porti pace e stabilità nella regione”, affermando che la Turchia è “pronta a fornire il sostegno necessario”. Ankara, che punta a riaprire l’ambasciata a Damasco in tempi brevi, aveva già detto ieri di voler aiutare la Siria a “garantire la sua unità” e “la sua sicurezza”.

Lui e Recep Tayyip Erdogan sono persone molto diverse. Il presidente parla sempre in turco. Un interprete è al suo fianco anche in occasione di chiacchierate informali. E parla quasi esclusivamente di sé, della sua visione politica e del futuro del suo Paese. A differenza di Erdogan, Fidan, militare di formazione con passato tra diplomazia e intelligence, ha un inglese perfetto, merito anche degli studi universitari nel Maryland. Nel cosiddetto small talk eccelle, dice chi ha avuto l’occasione di incontrarlo: dopo l’iniziale approccio serioso e diplomatico, sa rendersi affabile. Dossier in mano, è affilato nell’esprimersi, ogni sfumatura e scelta lessicale hanno un significato preciso e rientrano all’interno di una visione nitida degli interessi strategici e di come perseguirli. Mentre Erdogan ha scelto di usare la religione per consolidare il potere, Fidan, pur essendo musulmano, ha intrapreso un percorso più secolarizzato.

A legare Erdogan e quello che molti definiscono oggi il numero due della Turchia è soprattutto il golpe del 2016. In quell’occasione, l’allora capo dell’intelligence salvò il presidente dal colpo di Stato e superò la fase di scetticismo e psicosi che Erdogan nutriva verso chiunque, compresi i membri più fidati della sua cerchia. Da allora la sua carriera è stata in discesa. Erdogan l’ha definito “il miglior custode dei miei segreti” – un’affermazione che può prestarsi a diverse letture, anche in contraddizione tra loro. E l’anno scorso, dopo le elezioni, l’ha nominato ministro degli Esteri lasciando l’intelligence nelle mani di una figura non troppo ingombrante, l’ex portavoce presidenziale İbrahim Kalın.

Fidan, classe 1968, è visto a livello internazionale come il possibile successore di Erdogan, di 14 anni più anziano. È ritenuto, in particolare negli Stati Uniti e nella Nato, un interlocutore credibile e accettabile, etichette che non sempre vengono utilizzate a Washington e Bruxelles per il presidente. Chi lo conosce non ha dubbio, le caratteristiche del politico moderno, le ha. Davanti a lui c’è, però, un ostacolo: Erdogan, che non può accettare che gli venga fatta ombra. E a tal proposito torna utile quanto accaduto a inizio 2015, quando si dimise da direttore dell’intelligence per provare la strada politica nel partito Akp di Erdogan. Dopo un mese, però, gettò la spugna e tornò a guidare i servizi segreti. Forte, troppo, l’opposizione di Erdogan alla sua candidatura, che evidentemente aveva realizzato di non poterlo avere come competitor politico. Della serie “Tieni i tuoi amici vicini e i tuoi nemici ancora più vicini”. Il periodo di crisi tra i due fu poi risolto, come detto, dal ruolo di Fidan nel salvare il “sultano” dal golpe dell’anno successivo.

L’opposizione, che teme Fidan, pensa che possa essere lui il successore di Erdogan, pronto a spianargli la strada portando volti nuovi in politica, prima di passare il testimone. Secondo alcuni, questi passaggi avrebbero subito un’accelerazione alla luce delle non buone condizioni di salute del presidente. Nel frattempo, Fidan continua a lavorare sul piano internazionale con la Nato e con partner come Israele, nonostante le dichiarazioni ufficialmente dure, ed Egitto.

Se è vero che la sfida tra Turchia e Russia si potrebbe presto spostare, con nuovi equilibri di forza, in Libia, l’Italia non può permettersi di non seguire Fidan. Che è amante del Belpaese, della Sicilia in particolare.

(Foto: US State Department)

Chi è Hakan Fidan, ministro degli Esteri turco e architetto del Medio Oriente

Per 13 anni alla guida del servizio unico d’intelligence, il capo della diplomazia di Ankara ha disegnato la strategia di Erdogan in Siria. E oggi è pronto a riaprire l’ambasciata. Poi la presidenza quando il “sultano” lascerà? Li lega l’aiuto al leader contro il golpe del 2016. Li dividono personalità e visione

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