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In Italia lo sviluppo di infrastrutture energetiche continua a incontrare difficoltà e ritardi per opposizioni politiche, popolari, ambientaliste, ma anche di natura burocratica. Ogni edizione dell’Osservatorio Nimby Forum, ideato e realizzato da Allea, ci restituisce l’immagine di un Paese bloccato, ostaggio di un No che non conosce distinguo.

Anche l’ultimo rapporto Nimby, presentato di recente a Montecitorio, descrive una inarrestabile contestazione territoriale: nel 2016 sono infatti 359 gli impianti contestati, con un aumento del 5% rispetto all’anno precedente.

Come rilevato nelle scorse edizioni, il comparto maggiormente contestato resta quello energetico, con il 56,7% degli impianti, seguito dal settore dei rifiuti con il 37,4%. A crescere è anche il divario tra le categorie: nel 2016 sono quasi 20 i punti percentuali che separano il primo dal secondo classificato, e più di 30 punti dividono il comparto rifiuti da quello delle infrastrutture, che rimane stabile rispetto al 2015. Per quanto riguarda le fonti energetiche, sono proprio gli impianti che utilizzano fonti rinnovabili a essere maggiormente contestati: solo un quarto degli impianti censiti utilizza invece fonti fossili o convenzionali. Può apparire strano che gli impianti più contestati siano quelli che fanno uso di fonti rinnovabili, ma questo dato va letto alla luce di altre considerazioni.

Innanzitutto, le maggiori contestazioni derivano dal fatto che gli impianti da fonti rinnovabili sono quelli che vengono più spesso costruiti; è infatti raro trovare oggi impianti che sfruttano fonti convenzionali o fossili di nuova costruzione. Sempre per quanto concerne le tipologie degli impianti contestati, il 22,5% appartiene al settore degli idrocarburi, tra istanze di ricerca e impianti di perforazione ed estrazione del greggio. Si confermano tra le più contestate le centrali a biomassa, anche se in flessione di 4 punti percentuali rispetto all’anno precedente. Tornano anche le centrali geotermiche, con il 3% degli impianti. Il nord Italia detiene il primato delle contestazioni, confermandosi anche quest’anno primo sul podio col 41%.

L’incidenza delle contestazioni è strettamente collegata al grado di produttività, industrializzazione, commercio e partecipazione. Non stupisce, quindi, che siano le Regioni settentrionali a manifestare maggiormente le loro opposizioni nei confronti di opere indesiderate. Mantengono il primo e il secondo posto la Lombardia e l’Emilia Romagna, con 56 e 48 impianti, ma non mancano nelle prime posizioni anche regioni del centro e del sud: la Basilicata (dove si concentrano le attività petrolifere), con 32 impianti, e il Lazio, con 30 opere contestate. La Sicilia e la Puglia, con rispettivamente 26 e 24 impianti, occupano la prima metà della classifica insieme a Toscana, con 30 opere censite, e Veneto, con 28.

I soggetti contestatori sono raggruppati in categorie: popolare, politica, delle associazioni ambientaliste, delle associazioni
di categoria e sindacati. Naturalmente, la presenza di un soggetto contestatore non esclude gli altri: spesso le proteste coinvolgono più di un attore, più di uno strumento e più di un canale di comunicazione. Il soggetto popolare (comitati e associazioni) è ancora il trascinatore delle contestazioni. Seguono a distanza relativamente breve, e con un incremento rispetto all’anno precedente, le contestazioni portate avanti da enti pubblici e da esponenti della politica, che sommati costituiscono il 50% degli oppositori.

Continua quindi a crescere il bisogno condiviso da parte dei cittadini e degli enti locali di essere più partecipi delle decisioni che ancora troppo spesso vengono percepite come imposte dall’alto e con strumenti di dialogo e confronto giudicati evidentemente insufficienti. Questo clima si riflette nelle ragioni della contestazione: al secondo posto tra le motivazioni espresse contro gli impianti troviamo infatti carenze procedurali e mancanza di coinvolgimento nei confronti di enti locali e cittadini. Il 21,3% degli oppositori ritiene che le attività di concertazione con le istituzioni e la politica locale non siano sufficienti, e chiedono maggiore partecipazione. Il risultato delle opposizioni da parte di soggetti pubblici si traduce nell’abnorme quantità di ricorsi che ogni anno sommergono i tribunali amministrativi, ai quali viene richiesto di interrompere iter autorizzativi già avviati o di revocare autorizzazioni già concesse.

Uno studio approfondito del Nimby Forum rivela che un terzo degli impianti censiti nel 2015 ha subito almeno un’interruzione del suo iter autorizzativo proprio a causa di un ricorso a un organo di giustizia amministrativa. Un processo decisionale più partecipativo aiuterebbe senza dubbio ad alleggerire gli scaffali dei tribunali e a ridurre sostanzialmente le contestazioni da parte di soggetti pubblici e istituzionali. Tra i motivi più ricorrenti per le opposizioni troviamo anche l’impatto sull’ambiente, ragione che preoccupa il 30% dei soggetti coinvolti, ma anche gli effetti sulla salute a causa dell’emissione nell’aria, nell’acqua o nella terra di sostanze liquide o gassose che causerebbero danni alla salute dei cittadini delle zone limitrofe agli impianti.

Ma le manifestazioni di interesse nei confronti di un’opera non sono soltanto negative: se l’80% dei soggetti rilevati si esprime contro l’impianto con le motivazioni già viste, resta un 20% che invece si esprime favorevolmente all’opera: cinque punti percentuali in più rispetto allo scorso anno. Tra le ragioni del sì, troviamo a parità di punteggio l’assenza di impedimenti e il miglioramento dei servizi. Queste due motivazioni, da sole, compongono il 54% delle ragioni a favore, seguite da ragioni occupazionali legate all’incremento dei posti di lavoro e da ragioni di sviluppo del territorio. Non solo contestazioni, quindi: si sente anche la voce di quanti, favorevoli al cambiamento, vedono occasioni di rilancio, di produttività e di sviluppo nelle opere di pubblica utilità in costruzione o già operative.

Il fatto che i dati riportino un 80% di soggetti contrari e un 20% di soggetti favorevoli fornisce un’immagine distorta: non è infatti un dato che descrive fedelmente la realtà. Il dato – più che segnalare la presenza di una stragrande maggioranza di persone contrarie alle opere – rileva che i media, dai giornali alle radio alle pagine Facebook, riportano con maggiore clamore le notizie e i fatti che si pongono come contrari. Ma il dato è sintomatico anche di altro: le persone che sono favorevoli alle opere si attivano di meno rispetto ai contrari, rimanendo spesso nel silenzio. Si nota però una leggera inversione di trend rispetto all’anno 2015: le voci favorevoli sono cresciute del 5%.

Forse, qualcosa nel modo di riportare fatti e notizie sta cambiando. In ogni caso, per ovviare a questa percezione distorta, alcune aziende portano avanti studi demoscopici per capire le dimensioni reali delle iniziative di contestazione. Per quel che riguarda gli strumenti utilizzati da chi si esprime pro e contro gli impianti censiti, non cambia quanto registrato nel 2015: restano sul podio le comunicazioni alla stampa (25,7%), le manifestazioni o i sit in (23,8%), le comunicazioni online e via social media (22,9%).

Quello che cambia è la distribuzione delle attività: perde quasi cinque punti la comunicazione a mezzo stampa tradizionale, mentre guadagna più di tre punti la scelta di manifestare o organizzare raduni e sit in di protesta, e cresce di ben sei punti percentuali la comunicazione affidata agli strumenti online, soprattutto ai social media. Continuano a crescere, infatti, come c’è da aspettarsi, gruppi e pagine di comitati, cittadini ed esponenti della società civile che attraverso l’uso dei social network riescono a posizionarsi come veri e propri influencer nelle loro aree di interesse e ad agire in maniera efficace nella divulgazione di informazioni e nella persuasione.

L’evoluzione del fenomeno Nimby segue la trasformazione e la complessità della società contemporanea. La definizione di nuove politiche energetiche europee e nazionali, il tentativo di dar vita a un’economia circolare che punta al recupero, il ricorso a sistemi di mobilità più sostenibili sono tutti temi centrali nel dibattito sulle opere di pubblica utilità.

Strumenti di comunicazione come i social network rendono ogni dibattito polifonico, dando la possibilità a ognuno di intervenire, portando nella maggior parte dei casi opinioni e posizioni contrarie rispetto a quelle sostenute dalle istituzioni e dai media tradizionali.

Una forte sfiducia nei confronti dei media tradizionali spinge sempre più persone a credere alle fake news divulgate sul web, a dispetto di pareri scientifici o di esperti qualificati. Al di là della struttura e dei meccanismi della Rete e dei bias cognitivi che spesso accompagnano chi si rivolge a certe community virtuali, ancora una volta la domanda è quella di partecipazione.

Rendere i cittadini e le istituzioni locali partecipi dell’iter decisionale è un atto di inclusione necessario se si vuole ridurre il tasso di contestazione. Strumenti come il dibattito pubblico, la comunicazione integrata, il confronto tramite assemblee o incontri dedicati trovano in Italia ancora poco spazio. Nonostante questo, ci sono state anche delle esperienze di dibattito pubblico che attraverso il dialogo hanno portato a modi che dei progetti presentati, all’attivazione di attività di compensazione e alla ricerca di soluzioni condivise per minimizzare l’impatto dell’opera sul territorio, inteso sia come ambiente fisico che come comunità.

Con l’entrata nell’ordinamento italiano del dibattito pubblico nel 2017 – che, in attuazione del codice appalti, rivoluziona il ruolo di cittadini e territori nelle procedure di informazione, partecipazione e confronto pubblico sull’opportunità, le nalità e le soluzioni progettuali di opere, progetti o interventi pubblici – si è acuita ulteriormente la sensibilità pubblica sul tema della partecipazione.

Per ora il dibattito pubblico sarà obbligatorio solo sulle opere sopra i 200 o 500 milioni a seconda delle tipologie. È però obbligatorio anche su richiesta del governo, degli enti locali o dei cittadini (50mila rme). Questo per i soggetti proponenti significa doversi preparare a entrare nel dibattito pubblico su richiesta del territorio, e quindi dotarsi in anticipo di conoscenze e strumenti in grado di partecipare attivamente al processo e di utilizzarlo positivamente per alimentare consenso e fiducia.

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