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L’export di materiale dual-use verso la Russia non passa più dalla Turchia. Nelle ultime settimane Ankara ha infatti bloccato le esportazioni, attraverso la sua dogana, di una serie di beni prodotti negli Stati Uniti, beni che secondo Washington e altri alleati occidentali degli Usa ricoprono un ruolo vitale nel sostegno allo sforzo bellico di Mosca in Ucraina. Tuttavia questa svolta non sarebbe stata annunciata pubblicamente, e sarebbe anzi avvenuta in modo molto sommesso.

Tre persone direttamente a conoscenza della questione hanno dichiarato al Financial Times che il governo turco ha deciso di limitare l’esportazione di determinati beni (inclusi prodotti elettronici avanzati che compaiono regolarmente nei missili e nei droni abbattuti in Ucraina, come processori e schede di memoria, ma anche macchine utensili e altre attrezzature utilizzate per produrre armi) in seguito alle pressioni esercitate in questo senso da parte degli Stati Uniti, non dandone però pubblica notizia a causa di “sensibilità politiche”. Termine che non risulta particolarmente difficile da tradurre: sotto la guida di Recep Tayyip Erdoğan la Turchia si è ritagliato un ruolo “terzo, posizionandosi come potenziale pacificatore nella guerra in Ucraina e come intermediario tra le democrazie occidentali e Mosca. Simbolico in questo senso, l’accordo sul grano firmato a pochi mesi dall’inizio del conflitto, firmato proprio a Istanbul per via del ruolo pivotale assunto in quel contesto diplomatico dal Paese anatolico.

I silenziosi divieti sulle esportazioni militari verso la Russia rappresentano però una vera e propria inversione rispetto al ruolo di salvagente dalle sanzioni occidentali che Ankara aveva abbracciato all’inizio della guerra. E non è l’unico segnale di una “sterzata ad Ovest”: quest’anno le banche turche hanno ridotto drasticamente i loro affari con le controparti russe, dopo che gli Stati Uniti hanno emesso un ordine esecutivo che minacciava sanzioni contro i prestatori che elaboravano transazioni per la macchina da guerra del Cremlino.

Sicuramente ha pesato la paura della ritorsione statunitense. Soprattutto dopo gli avvertimenti ricevuti da parte dell’amministrazione guidata da Joe Biden: lo scorso agosto l’assistente del segretario al commercio che guida gli sforzi degli Stati Uniti per tenere la tecnologia sensibile fuori dalle mani degli avversari dell’America, Matthew Axelrod, ha incontrato funzionari e dirigenti turchi ad Ankara e Istanbul. In quell’occasione ha avvertito che la Turchia avrebbe dovuto affrontare “conseguenze” se non avesse preso provvedimenti per interrompere i rapporti con la Russia per quanto riguarda i beni destinati al campo di battaglia. Lo stesso Axelrod, alla luce delle ultime novità, ha dichiarato al Ft: “Crediamo che il governo turco abbia ascoltato e compreso le nostre preoccupazioni. Siamo ottimisti sul fatto che vedremo una maggiore cooperazione in futuro”.

Adesso Erdogan dovrà trovare un modo di ribilanciare questa “sterzata”, soprattutto in ottica dei suoi dichiarati obiettivi diplomatici. A partire da quello di aderire formalmente ai Brics, sulla base degli scarsi progressi registrati nel processo di integrazione europea durante gli ultimi anni; inoltre, la Turchia si sta affermando come partner economico di rilievo per alcuni dei principali Paesi del gruppo, come la stessa Federazione Russa o la Repubblica Popolare Cinese. Il leader turco si trova in questi giorni a Kazan, la terza città della Federazione Russa, proprio per prendere parte all’incontro dei Brics. E per portare avanti il suo “gioco da equilibrista” tra il mondo occidentale e quello orientale.

Tutto ciò proprio nelle stesse ore in cui ad Ankara un commando presumibilmente afferente al Pkk ha attaccato la fabbrica in cui vengono prodotti i Tai Tf-X Kaan, i caccia di ultima generazione della Turchia. Un gesto dal significato profondamente simbolico, data la natura della produzione del sito interessato.

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