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L’accordo commerciale recentemente siglato tra Stati Uniti e Unione europea in Scozia va letto meno come un compromesso economico e più come un atto di riequilibrio geostrategico, in senso sfavorevole all’Europa.

Dietro la patina di un’intesa condivisa si cela un’operazione di consolidamento del primato statunitense sull’architettura economico-industriale dell’Occidente, in un momento in cui l’Europa si presenta divisa, vulnerabile e strategicamente esposta.

Il risultato è un accordo asimmetrico, sintomo di una subordinazione strutturale europea, tanto sul piano della capacità negoziale quanto su quello dell’autonomia decisionale. A rafforzare questa lettura contribuisce la stessa precisazione della Commissione, secondo cui l’accordo non ha valore giuridico vincolante: ciò lascia campo libero a future amministrazioni statunitensi, di intavolare negoziati separati con i singoli Stati membri, scavalcando Bruxelles e alimentando le spinte centrifughe all’interno dell’Unione.

Non meno significativo è lo stile con cui si è svolto il vertice: secondo indiscrezioni, le discussioni si sarebbero tenute durante l’intervallo tra due partite di golf dello stesso Trump. Un dettaglio solo in apparenza marginale, ma altamente rivelatore del livello di asimmetria ormai raggiunto nei rapporti transatlantici.

Il punto critico non è solo il contenuto tecnico dell’accordo, già di per sé sbilanciato, ma soprattutto il contesto politico-strategico in cui esso è maturato: una guerra in corso ai confini orientali dell’Ue, una crescente dipendenza dagli Stati Uniti in materia di difesa e intelligence, e l’incapacità strutturale di agire come potenza geoeconomica unitaria.

Il fallimento dell’Ue nel rendere credibile una propria “funzione di reazione” alle manovre unilaterali di Washington ha reso Bruxelles prevedibile e docile, rinunciando a sfruttare le finestre di opportunità offerte dalla fragilità interna americana e dalla crescente polarizzazione del mercato globale.

Dal punto di vista geoeconomico, la sequenza negoziale ha visto l’Ue rinunciare preventivamente a strumenti di pressione, come le misure di ritorsione sui dazi americani su acciaio e alluminio, optando per un congelamento che ha azzerato la propria capacità negoziale effettiva.

Si è passati dall’ambizione di un regime di “dazio zero” a una forma di “accomodamento forzato”, con un impianto simile all’accordo “alla giapponese”, caratterizzato da dazi selettivi e concessioni non tariffarie elevate.

Si tratta di una resa evidente di fronte a una visione mercantilista degli Stati Uniti, secondo cui ogni accordo deve consacrare una superiorità strategica americana, anche a costo di distorsioni sistemiche. Questa dinamica non è nuova, ma oggi si sviluppa in un contesto in cui Washington utilizza strumenti di competizione geoeconomica, sussidi, dazi, restrizioni sulle tecnologie critiche, come vere e proprie leve di dominio geopolitico, in assenza di una risposta coordinata e strutturata da parte europea.

Eppure, l’Unione dispone di un mercato unico di rilevanza globale. Ciò nonostante, continua a soffrire di un deficit di assertività e visione strategica, aggravato dalla mancanza di un’unione fiscale, industriale e militare all’altezza delle sfide sistemiche.

L’accordo ha evidenziato non solo la vulnerabilità esterna dell’Europa, ma anche le sue fratture interne. La Commissione europea, pur proclamando un’agenda ambiziosa di trasformazione economica (Draghi–Letta), non è riuscita a mobilitare le risorse necessarie per sostenerla.

L’assenza di un bilancio pluriennale all’altezza delle ambizioni e le spinte disgregatrici provenienti da Stati membri chiave, in primis la Germania, hanno compromesso la coerenza interna del blocco e ne hanno indebolito l’immagine verso l’esterno.

Ne deriva una crisi latente di credibilità istituzionale: la Commissione viene percepita non come attore geopolitico forte, ma come organo tecnico incapace di incidere sugli equilibri sistemici.

L’aspetto più allarmante riguarda l’autonomia strategica dell’Ue, oggi più che mai in bilico. La dipendenza strutturale dalla protezione americana, rafforzata dalla guerra in Ucraina, ha reso quasi impossibile per Bruxelles trattare da pari a pari con Washington. L’Europa ha preferito cedere sul piano commerciale pur di non compromettere l’asse transatlantico in un momento di forte tensione internazionale.

Così facendo, ha finito per rafforzare una dinamica di subordinazione strategica: la solidarietà militare viene scambiata per influenza economica, in un rapporto di forza sempre più sbilanciato. L’accordo, inoltre, non contiene alcun meccanismo volto a rafforzare l’autonomia industriale e tecnologica dell’Europa.

Al contrario, facilita l’ingresso statunitense in settori strategici, ostacolando i timidi tentativi di reshoring e reindustrializzazione continentale.

Né si registrano progressi verso una difesa europea integrata. L’aumento della spesa militare post-2022 ha finito per favorire in larga misura l’industria della difesa statunitense, perpetuando la dipendenza da forniture, standard e logiche operative d’Oltreoceano.

L’accordo Usa–Ue rappresenta un bivio storico: o l’Europa prenderà finalmente coscienza della propria vulnerabilità geoeconomica e si strutturerà come attore unitario dotato di reale autonomia industriale, militare e tecnologica, oppure continuerà a rincorrere una presunta “partnership tra pari” che, nei fatti, si configura sempre più come una relazione egemonica asimmetrica.

Il tempo delle illusioni è finito. Le sfide sistemiche, dal confronto Uas–Cina al decoupling delle catene globali, dalla sicurezza energetica alla corsa agli armamenti tecnologici. impongono all’Ue di passare dalla difesa tattica alla strategia strutturale.

L’accordo siglato in Scozia sarà ricordato non tanto per ciò che concede, ma per ciò che rivela: la necessità urgente per l’Europa di non essere più soltanto uno spazio di mercato, ma una potenza geopolitica consapevole e capace di difendere i propri interessi, in autonomia, anche nei confronti dei propri alleati.

Ue, il tempo delle illusioni è finito. La strada dopo i dazi secondo Preziosa e Velo

Di Pasquale Preziosa e Dario Velo

L’accordo siglato in Scozia sarà ricordato non tanto per ciò che concede, ma per ciò che rivela: la necessità urgente per l’Europa di non essere più soltanto uno spazio di mercato, ma una potenza geopolitica consapevole e capace di difendere i propri interessi, in autonomia, anche nei confronti dei propri alleati. La riflessione del generale Pasquale Preziosa e di Dario Velo, docente di economia presso l’Università di Pavia

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