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Ore 23:00 di venerdì 29 marzo 2019. Questa è la data ufficiale a partire dalla quale il Regno Unito sarà ufficialmente fuori dall’Unione europea, come ha annunciato dalla premier britannica Theresa May. Delle (poche) decisioni prese dal governo britannico sul tema Brexit, questa è probabilmente la più importante. Le trattative per la secessione dall’Ue sono infatti a un punto di stallo per l’incapacità del Regno Unito di portare avanti una proposta completa e coerente, derivata dall’assenza di una vera e propria strategia Brexit – mai andata oltre il white paper molto generico e poco propositivo dello scorso febbraio, e una serie di discorsi della May -. Una paralisi rinforzata dalla compattezza delle posizioni europee e dalla crescente instabilità politica ed economica del Regno Unito.

500 DAYS OF BREXIT 

In effetti, poco o nulla è successo negli ultimi mesi; questo contro le speranze dei molti che, sia lato britannico che lato europeo, speravano almeno in alcune proposte sui punti chiave della questione: prima di tutto, la definizione del Brexit bill, ossia dei pagamenti che Londra dovrà ancora versare all’Ue per coprire i contributi al bilancio europeo per cui s’è impegnata anche oltre il 2019 (tra gli altri motivi, perché il bilancio dell’Ue è deciso su base settennale). Sarà poi fondamentale risolvere la questione del confine tra Repubblica d’Irlanda e Irlanda del Nord, della protezione dei diritti dei cittadini europei nel Regno Unito e delle condizioni dei futuri rapporti commerciali tra Ue e Regno Unito.

500 giorni sono passati dal referendum sulla Brexit e sei round di negoziati si sono consumati, senza raggiungere un compromesso su nessuno di questi punti. Ecco la ragione della scadenza del 14 dicembre inviata recentemente dal capo negoziatore per l’Ue Michel Barnier al governo britannico. Barnier ha infatti cercato di smuovere la situazione chiedendo al Regno Unito chiarificazioni che ha definito “vitali” almeno sul tema del Brexit bill entro quella data, scelta perché coincidente con il prossimo Consiglio europeo.

La richiesta ha però sortito un effetto limitato: la May ha dichiarato di essere disposta a offrire fino a 40 miliardi di euro, ma a patto che l’accordo sul commercio sia soddisfacente per il Regno Unito. Un valore però lontano dai 60 miliardi di cui si parla a Bruxelles (con stime che arrivano a cento) e, soprattutto, condizionato al raggiungimento di un accordo sulla partecipazione del Regno Unito al mercato unico – uno degli ultimi temi di cui vorrebbe parlare Bruxelles.

NAVIGARE A VISTA

Le ragioni di questo ‘dialogo tra sordi’ tra Bruxelles e Londra sono molteplici. Uno dei problemi principali è quella della divergenza dei idee fra i due su quale sarà la condizione del Regno Unito dopo il 29 marzo 2019: l’Ue prevede due opzioni generali, la prima ‘tipo Norvegia’, ossia con maggiori benefici e altrettanti obblighi, la seconda più vicina alle partnership con Paesi come il Canada, più snelle rispetto al commercio tramite il Wto, ma comunque lontane dallo statuto attuale.

La May ha invece in mente una soluzione di mezzo, un ibrido che lei chiama “immaginativo” e che richiama l’approccio cherry picking citato dalla premier in diverse occasioni, riguardo ad esempio alla futura partecipazione ai programmi di ricerca europei: scegliere gli elementi che più convengono al Regno Unito e creare così un accordo “personalizzato”. Un tipo di soluzione che l’Ue ha rifiutato sin dall’inizio, e che è quasi impossibile che venga mai accettata.

Oltre a questa incomprensione di fondo nell’approccio alla questione, resta però in generale difficile capire quale sia effettivamente la posizione del Regno Unito sulle questioni chiave. Il White Paper del febbraio 2017 era vago: più una dichiarazione d’intenti che un documento programmatico. Il discorso della May a Firenze dello scorso settembre è stato altrettanto generico: ha sì confermato l’intenzione del Regno Unito di garantire i diritti dei cittadini europei nel Paese, ma non ha indicato in nessun modo come questo avverrà. Nessun riferimento è stato poi fatto al confine irlandese, una questione per cui, se non sarà risolta, la Repubblica d’Irlanda ha già indicato che metterà il veto sull’accordo per la Brexit. E la May non è nemmeno riuscita a fare una proposta chiara per il futuro statuto del Regno Unito dopo l’uscita dall’Ue. Il discorso ha così brevemente ravvivato i negoziati dopo lo stop estivo, salvo poi lasciarlo ricadere nella paralisi attuale.

RISOLVERE LE QUESTIONI INTERNE 

In tutto questo, il Regno Unito stesso non sta attraversando un periodo particolarmente florido: il Pil ha rallentato in maniera inaspettata, vista la buona performance nell’immediato post Brexit, raggiungendo il minimo dal 2013. Il governo è stato poi flagellato da una serie di scandali legati alle molestie sessuali, che hanno coinvolto quattro parlamentari, incluso un ministro.  Tutti elementi che aggiungono fragilità alla posizione della May, già in bilico dopo le fallimentari elezioni del giugno scorso.

Di fronte a un governo che è sempre più diviso a livello domestico, incapace di formulare una proposta solida nei confronti dell’Ue, di cui piuttosto aspetta una mossa per reagire, è quindi comprensibile l’idea della May di un periodo di transizione dopo la scadenza del 2019, in cui mantenere lo status quo su commercio e libertà di movimento.

L’incertezza sta però costando cara al Regno Unito, ed è difficile aspettarsi iniziative da parte dell’Ue, sia per ragioni di principio – la responsabilità della Brexit, e quindi di proposte per risolverla, è in effetti di Londra – che pratiche – è difficile relazionarsi con una controparte che non sa che cosa vuole. L’uscita dall’impasse potrebbe così passare per un consolidamento della posizione interna britannica: un risultato molto difficile però da ottenere per una premier a capo di un partito diviso e sempre di più osteggiata dal Labour, all’opposizione e in crescita significativa dalle ultime elezioni.

(Articolo tratto dal sito AffarInternazionali)

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Di Lorenzo Colantoni

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