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Da un lato c’è Cambridge Analytica, la compagnia di analisi accusata di aver sottratto le informazioni di oltre 50 milioni di profili Facebook e di aver utilizzato questi dati sensibili per influenzare le elezioni che hanno visto Donald Trump vincente negli Stati Uniti. Sull’altro versante, sempre sul banco degli imputati, c’è lo stesso social network fondato da Mark Zuckerberg, ritenuto colpevole di aver scoperto già nel 2015 che i suoi dati erano stati trafugati in massa ma di non avvertito i suoi utenti e aver sottovalutato i rischi che quanto avvenuto poteva comportare.
In mezzo, spiega a Formiche.net Stefano Zanero, professore associato del Deib, il dipartimento di computer engineering del Politecnico di Milano, ci siamo proprio noi internauti, spesso ignari della grande rivoluzione tecnologica che ha sconvolto il modo di relazionarsi e di vedere il mondo. Eppure, “considerando l’impatto profondissimo di questo settore su ogni attività economica e sociale umana, a livello mondiale, forse è il momento che il dibattito su queste questioni diventi mainstream”.

Professor Zanero, il caso è ormai noto. Ma come hanno fatto tecnicamente gli ingegneri di Cambridge Analytica a rastrellare una mole così importante di dati?

Interpretando quanto dichiarato dal whistleblower, hanno utilizzato una applicazione Facebook che proponeva i classici “quiz di personalità” che molti utenti si divertono a completare. Dando accesso a questa applicazione, si consentiva ad essa di visualizzare anche le informazioni sui propri amici. Prima di una modifica nelle policy di Facebook del 2014, ciò consentiva di raccogliere informazioni su tutti gli amici della persona che faceva il quiz, non solo sugli amici che a loro volta avessero usato tale applicazione.

A che cosa ha portato questa attività?

Ha consentito di ricostruire il grafo delle relazioni e di raccogliere un ampio set di dati su, pare, oltre 50 milioni di elettori statunitensi. Inoltre, l’accesso alle informazioni era stato richiesto sotto le spoglie di una ricerca di tipo accademico, mentre è molto chiaro che l’utilizzo sia stato tutt’altro.

CA è l’unica compagnia che offre questo tipo di servizi?

Non penso proprio che siano gli unici, anche se sembrerebbero tra quelli più spregiudicati di cui abbiamo avuto notizia fin’ora. Peraltro, “non sono gli unici” anche perché i social network stessi offrono servizi analoghi, pur con tutele e cautele diverse.

Pare che il punto di forza di CA sia un software in grado di comprendere in modo molto accurato la personalità di un individuo e, dunque, di proporgli messaggi in grado di influenzarlo. Sarà questo il futuro delle campagne elettorali e dell’advertising in genere? E di quali altri campi?

Non solo è il futuro, ma è decisamente il presente: l’utilizzo fatto da CA è forse un po’ più spregiudicato della media, e ha contribuito ad un risultato molto destabilizzante che “fa notizia” da quasi due anni. Ma non dimentichiamoci che Facebook stessa colleziona molti più dati su un numero di individui di ordini di grandezza più grande. Davvero pensiamo che le meccaniche dietro l’advertisement “social” siano o possano essere diverse?
E non è certo solo l’elemento social il tema. Tutte le grandi aziende “data driven” e “advertisement driven” giocano in questo campo e suscitano gli stessi dilemmi etici.

Soffermiamoci un attimo sul ruolo delle reti sociali. Tutti questi dati sarebbero stati raccolti su Facebook, che peraltro non avrebbe nemmeno avvertito gli utenti quando si è accorta dell’accaduto. Sono i social network a dover creare ambienti più sicuri o sono gli utenti che pubblicano troppo delle loro vite? Ha ancora senso il concetto di privacy in Rete?

Una domanda complessa. Da un lato, il semplice fatto che nel 2014 le policy di Facebook siano state rese più restrittive indica che ci sia stata una presa di coscienza in merito. E tuttavia ovviamente ciò significa solo che “terzi” non saranno in grado di accedere così facilmente a questi dati, ma Facebook stessa ne continuerà a fare tesoro.

Ed è questa forse la riflessione più ampia a cui siamo chiamati: è vero, i social ci solleticano e forniscono un servizio ed un divertimento che ci piace. È vero, i sistemi che collezionano dati su di noi (dai service provider vari, ai sistemi IoT) ci rendono la vita più semplice in mille modi. Però qui abbiamo un esempio plateale, peraltro su piccola scala rispetto alle raccolte dati di Facebook, Google o Twitter, di cosa si possa fare con quello che “regaliamo” di noi, se qualcuno “spregiudicato a sufficienza” ci mette le mani, e i soldi, e la motivazione. E quindi si incrociano problematiche di tipo economico (quanto è sostenibile questa economia basata sulla raccolta di dati?), etico (che riflessioni devono fare, in questi momenti, gli ingegneri che hanno sviluppato e che stanno sviluppando questi sistemi?), politico (in senso stretto ed in senso lato).
Considerando l’impatto profondissimo di questo settore su ogni attività economica e sociale umana, a livello mondiale, forse è il momento che il dibattito su queste questioni diventi mainstream. E spero, spero vivamente, che non si riduca a scontro su “Trump” o sulle elezioni italiane.

A proposito di elezioni americane, ma non solo, crede che sia davvero possibile influenzare le opinioni di voto attraverso la Rete fino a portare un candidato alla vittoria?

Innanzitutto, mi piace ricordare uno dei grandi maestri italiani dell’advertisement e poi delle libertà digitali, il compianto Giancarlo Livraghi, che soleva ripetere che la pubblicità funziona anche e sopratutto perché tutti coloro che la vedono sono convinti che non sia efficace. Questo perché pensiamo che lo scopo sia convincerci, lì e subito, a “fare” qualcosa, mentre il meccanismo della pubblicità è più subdolo e più a lungo termine, ovvero quello di costruire o alterare una serie di modelli e di riferimenti che, in futuro, ci faciliteranno a prendere una certa decisione.

Non credo che la pubblicità possa, da zero, costruire un candidato e farlo “vincere” in un’elezione democratica in pochi mesi. Sarebbe assurdo, ad esempio, pensare che ciò sia quello che è successo in Italia nel ’94. Non è che ai tempi la pubblicità televisiva abbia “spinto” gli italiani a votare per il neonato partito di Berlusconi. Tuttavia, hanno costruito una serie di temi, di elementi, che sono diventati parte del dibattito: e quegli elementi erano, tutti e soli, quelli su cui Berlusconi aveva costruito il suo messaggio. In altre parole, la pubblicità può cambiare gli argomenti di cui si discute, i metri di riferimento.

C’è chi sostiene che potrebbe semplicemente confermare ciò in cui uno già crede.

Certo, può principalmente “confermare” ciò in cui uno crede: non è mica poco! Le elezioni si giocano sullo spostamento di alcuni elettori “swing” da un gruppo ad un altro. Se riesco a isolare un gruppo di elettori in una loro “bolla” informativa impenetrabile, rendo lo “swing” della parte lievemente meno convinta impossibile. Questa è un’influenza decisiva, non marginale.

Posso anche creare degli interi argomenti di discussione francamente surreali. Pensiamo, nel caso delle elezioni Usa, all’argomento della strage di Benghazi, la cui importanza è stata gonfiata così tanto al di là della realtà da rendere persino oggettivamente difficile smentire le teorie più folli. Pensiamo, nel caso della Brexit, al voto contro le “follie” burocratiche dell’Europa, in gran parte inventate di sana pianta dai tabloid, ma ormai talmente solide da non poter essere smentite nemmeno dalla realtà.

L’utilizzo di questi dati personali può essere combinato alla diffusione di fake news e disinformazione? Se sì come?

Il primo e principale punto di connessione è la possibilità di identificare gli utenti più “influenti” tra i propri circoli di amicizie e allo stesso tempo più “sensibili” a determinati argomenti, unendo i dati sul loro grafo social con quelli dei test di personalità, ad esempio. A quel punto diventa facile “creare” notizie, disinformazione, meme e slogan che possano colpirli e tramite loro propagarsi ai loro cerchi di amicizie. Peraltro, in questo modo, si tende a rinsaldare quelle “clique”, quei gruppi interconnessi, e a renderli sempre più saldi su certi temi e più “resilienti” rispetto alla propagazione di altri contenuti.

CA avrebbe lavorato spesso per candidati o cause considerati ‘populisti’: Trump, ma anche Marine Le Pen e i pro Brexit. C’è una ragione ideologica o tecnica dietro questa scelta, nel senso che è più facile ottenere risultati lavorando per candidati con proposte radicali?

Da un lato, questa osservazione è un dato di fatto. Possiamo ipotizzare alcune ragioni: la prima è che questo tipo di tecniche, basate su notizie virali, meme e semplificazioni della realtà funzionano molto meglio nel contesto ideologico di quel tipo di movimenti. Un’altra ragione è un bias di osservazione: siccome le vittorie di tali movimenti hanno fatto scalpore, ci rendiamo conto dell’uso di queste tecniche, che se non avesse condotto a tali risultati “straordinari” sarebbe passato in sordina. Un legittimo sospetto è anche che si tratti delle campagne più fortemente finanziate da vari tipi di interessi geopolitici che possono ricorrere più facilmente a una campagna nascosta sui social network rispetto ad altre forme di supporto.

C’è anche da dire che, ad esempio, la campagna di Obama nel 2012 utilizzò un’applicazione analoga e una raccolta di dati analoga per consolidare e caricare la propria base: la differenza è che non ne fece mistero (l’applicazione era esplicitamente “della campagna”, mentre in questo caso gli utenti sono stati “colpiti” senza alcuna informazione in merito e col pretesto di applicazioni differenti).

Così Cambridge Analytica e i social media influenzano le nostre scelte. Parla Zanero (Polimi)

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