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Venerdì 1 dicembre il capo del Consiglio presidenziale libico Fayez Serraj era a Washington per incontri di alto livello, tra cui uno nello Studio Ovale con il presidente americano Donald Trump. Serraj coordina da due anni – su garanzia delle Nazioni Unite – un corpo che ha potere semi-esecutivo e mandato per ricevere la fiducia parlamentare per guidare la Libia (unita), ma non riesce a ottenere questo avallo politico dal parlamento, che si è auto-esiliato a Tobruk ed è sostanzialmente diviso sul wannabe premier. Tobruk è un simbolo delle opposizioni più forti al piano onusiano: si trova nella porzione orientale della Libia – mentre Serraj si muove da Tripoli per ricevere consensi, più che altro d’immagine, tra i palcoscenici internazionali. Là, a Est, si trova Bengasi, la città controllata dal maresciallo di campo Khalifa Haftar che da tre anni ha ingaggiato una personale lotta contro l’altra regione libica (Tripolitania contro Cirenaica suona come uno scontro storico) camuffandola da lotta al terrorismo. Haftar ha una mira politica: Tripoli, e tiene sotto scacco il parlamento attraverso un lavoro in simbiosi con alcuni potenti parlamentari.

LO STALLO

La situazione è in stallo, nonostante Serraj – grazie alle milizie della città/stato di Misurata (altra cosa che suona storica) e all’appoggio aereo americano – possa accreditarsi la vittoria sull’infiltrazione dello Stato islamico a Sirte, una città costiera tra Est e Ovest. Serraj non riesce a ottenere la giusta spinta per riprendersi il paese anche perché dietro di lui si muovono interessi di attori esterni, schierati sui due fronti senza però ambizioni chiare e progetti definitivi: la Tripoli onusiana è aiutata dall’Italia (su tutti), dall’Europa e dalle Nazioni Unite, dal Regno Unito, da Qatar e Turchia (che però sono più vicine a gruppi islamisti che danno sostegno a Serraj, tipo i misuratini); la Bengasi di Haftar gode di sponsor come gli Emirati Arabi e l’Egitto, e sponsor più laschi, come la Russia e in alcune circostanze anche la Francia (formalmente tra i sostenitori del progetto dell’Onu). Gli Stati Uniti stavano con Serraj ai tempi dell’amministrazione Obama, ma – anche nell’ottica della cancellazione trumpiana di ogni genere di legacy lasciata dal governo precedente – Trump sta spostando l’asse.

LA CHIAVE ANTI-TERRORISMO…

Con Haftar si può dialogare, è un messaggio che ormai, comunque, arriva da ogni parte del mondo (compresa Roma, la più serrajana delle capitali europee) anche per ragioni di prammatica: la Russia ha spostato il suo peso dietro al maresciallo, che ha consolidato la sua presa territoriale a oriente, e nessuno – salvo impegnativi interventi militari – è in grado di scalzarlo. Per la Washington di Trump la Libia è soprattutto un territorio di caccia contro i baghdadisti: la sconfitta di Sirte infatti non li ha obliterati, ma li ha fatti disperdere nelle aree meridionali del Paese (dove è più facile sfuggire alla legge) e si temono contaminazioni con le regioni del Sahel, già malate di jihad. I droni che decollano da Sigonella (base siciliana americana) pattugliano costantemente lo scenario, e a volte colpiscono gli uomini del Califfo – le zone di confine tra Libia ed Egitto, per esempio, sono diventati una membrana osmotica per i combattenti, che ora stanno tornando verso il Sinai, dove da tempo si è creato un importante hotspot califfale fuori del territorio del Siraq, ormai in contrazione.

… E L’INTERESSE DI WASHINGTON

Sotto quest’ottica è comprensibile che l’interesse americano – dove il presidente si dipinge come un paladino contro il terrorismo – sia relativo: Washington vuole certamente qualcuno con cui poter dialogare sul campo per ottenere conferme o informazioni sui suoi obiettivi, ma delle condizioni politiche del paese non vuole occuparsi. Anche per questo, venerdì Trump ha riservato a Serraj un’accoglienza in sordina. “È una notizia minore”, spiega una fonte di Formiche.net molto informata sui dossier mediterranei, che come altre sentite preferisce restare anonima per parlare con maggiore libertà. Inoltre l’incontro di venerdì s’è tenuto in un giorno piuttosto devastante per l’amministrazione: mentre i due leader erano riuniti a porte chiuse, la ABC batteva le prime notizie sulla confessione/collaborazione dell’ex consigliere Michael Flynn nell’ambito del Russiagate. Dicono dalla Casa Bianca: Trump è stato subito ragguagliato su Flynn, e per questo ha tenuto il vertice in modo distratto, s’è alzato per chiedere altre notizie, all’uscita dei due era prevista una photo opportunity con piccole domande shots da parte dei giornalisti ai leader, ma è stata fatta saltare (la foto che accompagna questo pezzo è stata scattata prima di chiudere le porte dello Studio Ovale).

L’OPZIONE HAFTAR

Ma potrebbe esserci dell’altro. Domenica, al Cairo – paese che come detto sopra ha posizione e interessi sulla questione libica, ed è anche un rinnovato partner russo (come dimostrano le intese militari chiuse in questi giorni) – un alto funzionario del Pentagono s’è visto in modo discreto Haftar e i suoi uomini, ci dice un’altra fonte dalla Libia, che spiega che questo genere di incontri è legato a una preoccupazione americana. Secondo Washington il mandato di Serraj scadrà il 17 dicembre, ossia a due anni di distanza da quando l’Onu chiuse l’accordo nella marocchina Skhirat con cui è stato messo al potere (o allo pseudo tale) Serraj: una volta finito l’incarico a Serraj, qualcuno potrebbe anche pensare di provare a dare lo stesso mandato ad Haftar (che è detestato con direzione e verso opposti, ma con vettore di ugual modulo, a Tripoli e dintorni), ci dicono. Questa pretesa è stata già apertamente avanzata dagli uomini del maresciallo, con molta propaganda, e forse un po’ di spin politico dall’esterno. Quanto questa possa essere una decisione game-changer non è chiaro, però sarebbe una mossa rivoluzionaria per lo status quo traballante che si è creato in questi mesi (si definisce questo stallo uno “status quo” perché, nonostante il sostanziale disequilibrio, alcuni punti nevralgici del sistema paese libico, con proiezione internazionale, come ad esempio le produzioni di petrolio, funzionano comunque).

TRUMP E LA LIBIA

Quando nel 2011 Washington lanciò, insieme alla Nato, l’azione militare per destituire il rais Gheddafi, Trump scriveva su Twitter (era già piuttosto assiduo del social network) che il punto non era tanto togliere dal potere il dittatore, ma cosa sarebbe arrivato dopo perché poteva essere pure peggiore.

Il processo di sistemazione della Libia è iniziato da lì, e dopo sette anni ancora non vede un progetto. Su questo è stato molto chiaro l’inviato delle Nazioni Unite per la crisi, Ghassan Salamé, che ha chiaramente detto che al momento c’è molto pragmatismo in giro, ma nessun piano da usare come sequenza cronologica per impostare una riunificazione/rappacificazione e stabilizzare il paese. E gli Stati Uniti sembrano disinteressati a recuperare il ruolo di policy maker per risolvere quest’enorme crisi che ha destabilizzato la regione mediterranea. In un’immagine: la scorsa settimana il think tank italiano ISPI ha organizzato a Roma un evento globale sul Mediterraneo. Erano presenti tutti i massimi vertici internazionali, cinesi, mediorientali, russi, europei, mancavano solo gli americani. Dall’istituto ci spiegano che quest’assenza è stata piuttosto ingiustificata, ed è rappresentativa dei tempi: lo scorso anno era presente il segretario di Stato John Kerry (a dicembre c’era ancora in carica, in forma transitoria, l’amministrazione Obama), mentre quest’anno il suo omolgo Rex Tillerson è stato invitato ed ha subito declinato. A quel punto sembrava dovesse venire un under-secretary al suo posto, ma anche quella presenza è saltata: a quattro giorni dall’inizio del forum era stato passato l’accredito a un’assistente di Tillerson, che alla fine non s’è presentato. Vuoto americano: perché? C’entra che il dipartimento è in completo disordine operativo per le liti tra Tillerson e Trump? “Probabilmente sì”, ma dimostra anche”disinteresse”, ci dicono dall’ISPI (dove sono rimasti piuttosto stupiti dell’assenza).

LA CORSA SUI MIGRANTI (COME INTERESSE E SIMBOLO)

Risolvere lo stallo politico libico non è soltanto una questione interna. La situazione è connessa ad allarmi regionali come la crisi migratoria che ha colpito l’Europa. La soluzione italiana – creare dei campi di contenimento che ultimamente la CNN, tra gli altri, ha descritto come una sorta di lager da cui prende vita un terribile mercato di esseri umani con persone vendute a 400 dollari l’una – e metterli in mano ai libici non è chiaro quanto possa funzionare ancora: servono passaggi strutturali, dicono gli esperti. Sull’argomento si è mosso la scorsa settimana Emmanuel Macron: il presidente francese ha una visione molto assertiva della politica estera, e il Mediterraneo è il bacino più comodo per navigare in questo momento. Macron, durante un tour africano (l’Eliseo crede molto all’influenza da giocare tra le ex colonie), ha proposto un intervento militare per svuotare i campi di contenimento e liberare i migranti lì imprigionati. Per il francese dovrebbe essere l’Europa a occuparsene, ma è ovvio che intende la missione guidata da Parigi. Macron conosce la tempistica, vede avvicinarsi il 17 dicembre, e si porta in anticipo per giocare un ruolo nel futuro prossimo libico. Una decina di giorni fa, il Corsera ha intervista Erik Prince, ex re dei mercenari stabilizzatori della Blackwater e attualmente nello stesso business, che ha proposto di inviare i suoi uomini per controllare l’immigrazione che usa la Libia come rubinetto di partenza. Prince è il fratello della segretaria all’Istruzione americana, ha ottime entrature nell’amministrazione Trump (per lui si parla di un possibile ruolo politico), è piuttosto ascoltato dal presidente, ha una società con sede negli Emirati, e ad Abu Dhabi è considerato un consigliere strategico: è una linea da tenere d’occhio, perché potrebbe sintetizzare insieme diversi interessi, da Tump a Macron, dalla Russia al Medio Oriente, e stringere su Haftar il futuro libico. Da qui dipendono svariati equilibri regionali.

(Foto: Twitter, @FarajAljarih)

L'incontro Trump-Serraj e il futuro della Libia

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