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Le esplosioni nella Striscia di Gaza sono all’ordine del giorno. Ma quella che questa mattina ha colpito il convoglio a bordo del quale viaggiava il primo ministro palestinese, Rami Hamdallah, rischia di pesare come un macigno sul fragile processo di riconciliazione tra le fazioni di Fatah e di Hamas e, di conseguenza, sugli equilibri politici regionali. Le prime notizie riportate da al Jazeera parlano di un dispositivo esplosivo entrato in azione poco dopo il passaggio del convoglio attraverso il valico di Beit Hanoun, al confine tra Israele e il nord della Striscia. I funzionari palestinesi – fra i quali anche il capo dell’intelligence dell’Autorità nazionale Majed Faraj – sono usciti illesi dall’attacco.

Le reazioni non si sono fatte attendere. La prima è stata quella di Hussein al Sheikh, membro del comitato centrale di Fatah, che ha assegnato a Hamas la “piena responsabilità” di “un atto criminale” che costituisce “un precedente assai pericoloso”, in grado d’influire su “politiche e decisioni” dei prossimi tempi. Parole che non devono sorprendere, poiché l’attacco di questa mattina s’inserisce in un quadro di forti e rinnovate tensioni tra le due principali anime della politica palestinese. Occorre tuttavia fare un passo indietro, neanche troppo lungo.

Cinque mesi fa lo stesso Hamdallah attraversava lo stesso valico di Beit Hanoun, accolto stavolta da una folla festante: pochi giorni prima, Hamas e Fatah avevano siglato al Cairo uno “storico” accordo di riconciliazione mediato dall’Egitto, e il premier palestinese andava a inaugurare a Gaza un nuovo governo di unità nazionale. Da quel momento in poi, però, le due fazioni hanno fatto ben poco per diradare la fitta coltre di scetticismo con cui gli osservatori internazionali continuavano a guardare gli sviluppi del processo di riconciliazione. La questione della sicurezza è rimasta un ostacolo insormontabile: Hamas ha mantenuto un serrato controllo della Striscia di Gaza e ha accusato il presidente palestinese Mahmoud Abbas di aver mancato di annullare una serie di sanzioni precedentemente imposte (segnatamente, il prepensionamento di migliaia di dipendenti pubblici a Gaza e il taglio dell’assistenza sociale per centinaia di famiglie). Inoltre, nel timore di far naufragare sul nascere i colloqui, al Cairo si erano ben guardati dall’affrontare lo spinoso interrogativo legato al destino delle brigate Ezzedine al Qassam, braccio armato del movimento islamista. Per lo stesso motivo erano state messe da parte le discussioni (anche queste non secondarie) relative all’approccio da tenere con Israele, che Fatah vuole “riconoscere” e Hamas “cancellare dalle mappe geografiche”. Alla base, una forte mancanza di fiducia tra le due parti, alimentata dall’amaro ricordo del conflitto del 2006 e da anni di sospetti e complotti dal sapore mediorientale.

In questo contesto di stallo è arrivata, a dicembre, la notizia del riconoscimento di Gerusalemme come capitale d’Israele da parte degli Stati Uniti. L’annuncio di Donald Trump, piuttosto che compattare il fronte palestinese e malgrado l’iniziale assonanza di reazioni, ha finito col polarizzare le posizioni di Fatah e Hamas, entrambe rimaste senza una chiara (men che meno condivisa) strategia di lungo termine. È notizia delle ultime settimane che al Cairo alcuni dirigenti di Hamas avrebbero iniziato a parlare con Mohammed Dahlan, ex leader di Fatah a Gaza inviso all’establishment di Abbas e costretto all’esilio negli Emirati Arabi Uniti. Personaggio assai influente, oggi considerato vicino al presidente egiziano Abdel Fatah al Sisi, Dahlan è un nome che viene fuori periodicamente quando tra Fatah e Hamas tira una brutta aria: secondo alcune fonti citate dai media palestinesi, l’Egitto e gli Emirati starebbero cercando di spingerlo a fondare un nuovo partito e contendere la leadership di Abbas. Quest’ultimo, per tutta risposta, ha convocato per il 30 aprile a Ramallah una sessione del Consiglio nazionale palestinese – la prima da quasi dieci anni a questa parte – senza consultare Hamas, che viene tenuto così fuori dal dibattito sul successore dell’attuale leader dell’Autorità nazionale palestinese.

L’ordigno esploso oggi a Beit Hanoun rappresenta così l’ultimo passo di una lunga escalation, a sancire con ogni probabilità la chiusura di qualunque prospettiva di riconciliazione palestinese. Non ne sarà certamente turbato il premier israeliano Benjamin Netanyahu che, alle prese con guai giudiziari e un governo traballante, non ha alcuna intenzione d’impegnarsi sul fronte dei negoziati con i palestinesi. Al momento, non sembra scorretto dire che non si è mai stati così lontani da una pace in Medio Oriente.

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