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L’Editorial Board del New York Times ha recentemente pubblicato un’analisi dettagliata e fortemente critica sulla gestione del Dipartimento di Stato da parte di Rex Tillerson e dell’amministrazione Trump.

L’articolo, intitolato “The Trump Administration Is Making War on Diplomacy”, prende spunto dai dati comunicati dall’American Foreign Service Association circa i tagli di budget e le politiche di riorganizzazione volute dal Segretario di Stato per efficientare una delle strutture più sensibili nella vita politica americana.

Secondo il NYT, il DoS starebbe attraversando uno dei periodi più difficili di sempre. Accanto ai tagli di budget, viene segnalata la grande difficoltà da parte dell’amministrazione a riempire alcune caselle essenziali per il funzionamento della diplomazia americana e l’incapacità di arginare il ritiro di numerosi diplomatici che, dopo anni di servizio decidono di uscire dal Foreign Service, spesso in rottura con le politiche organizzative volute dall’amministrazione.

Stando ai dati riportati, dall’inizio del 2017 sarebbero più di cento i diplomatici “senior” che hanno lasciato il Dipartimento. Di questi, il sessanta per cento avrebbe ricoperto ruoli di alta amministrazione (associabili alla posizione di “four star general” al Department of Defense) e il restante quaranta avrebbe abbandonato ruoli apicali nelle sotto-direzioni del dipartimento.

Alla fuga dei diplomatici senior non corrisponderebbe l’assunzione di nuovo personale in grado di colmare i vuoti lasciati da tanti che, dopo decenni vissuti con amministrazioni democratiche e repubblicane, hanno deciso di terminare la propria esperienza al DoS.

Solo due anni fa il numero di giovani professionisti che hanno sostenuto l’esame per divenire Foreign Service Officer si aggirava intorno alle 17.000 unità. Secondo i dati relativi al 2017, la cifra si sarebbe abbassata a meno della metà. La riduzione troverebbe giustificazione nella perdita di autorevolezza del Dipartimento. Anche per questo motivo, Tillerson avrebbe chiesto a diplomatici di alto rango di occuparsi di questioni di scarso rilievo, che normalmente spetterebbero al personale più giovane.

A pesare sul giudizio così negativo del New York Times anche la dissennata gestione del sistema dello spoils system. Il lavoro del Transition Team scelto dal presidente Trump non avrebbe tenuto conto delle peculiarità tecniche e delle competenze necessarie per individuare i nuovi vertici al DoS. A supporto di tale critica si riporta la decisione di porre a capo del Foreign Service una persona con una conoscenza assai ridotta di quel mondo. Stephen Akard sarebbe stato nominato Director of Foreign Service sulla base della sua esperienza nel team del vicepresidente Mike Pence, quando ordinariamente un incarico così prestigioso dovrebbe essere affidato ad un diplomatico di carriera, anche per evitare interferenze nelle scelte di politica estera.

Altro capitolo fortemente negativo è quello dei tagli al budget dei diplomatici americani. La critica ricorrente rivolta a Tillerson è quella di non essere stato in grado di difendere le prerogative del DoS, che da sempre compete con il Department of Defense nell’assegnazione dei fondi. Mentre il dipartimento della Difesa avrebbe visto un graduale aumento delle voci di spesa, nonostante i vincoli federali imposti dalle politiche di austerity, il Dipartimento di Stato avrebbe sperimentato nell’ultimo anno di bilancio un taglio di circa 38 miliardi di dollari, pari al 31% della spesa complessiva. Difronte alle tante crisi internazionali e ai numerosi fronti caldi in giro per il mondo sembrerebbe emergere la netta propensione dell’amministrazione a ricorrere allo strumento militare e non a quello diplomatico.

Principale responsabile del momento di crisi sarebbe proprio Rex Tillerson. Nonostante gli inizi incoraggianti e la piena fiducia attribuita ad un grande manager, la cui esperienza a capo della Exxon Mobile poteva essere garanzia di successo anche nel pubblico, sembrerebbe che il nuovo Segretario di Stato non riesca ad uscire dalle sabbie mobili dell’organizzazione e gestione dei suoi collaboratori.
Il New York Times, ad esempio, riporta una voce secondo cui proprio pochi giorni fa un pezzo importante di una riunione di vertice sia stato dedicato a come scrivere le note destinate al Segretario. Tale situazione avrebbe causato irritazione e risentimento nei diplomatici di carriera, più focalizzati sugli aspetti sostanziali di politica estera.

Il senso di agitazione è ormai uscito dai palazzi del Dipartimento di Stato e inizia a coinvolgere finanche il Congresso. E’ di pochi giorni fa uno statement congiunto del senatore repubblicano John McCain e della senatrice democratica Jeanne Shaheen in cui si esprime preoccupazione per le “questionable management practices” che hanno sinora caratterizzato la leadership di Tillerson, che inizia a vacillare in maniera sempre più evidente.

Il New York Times chiude la propria analisi con una domanda che sembrerebbe voler aprire la strada ad un’eventuale successione del Segretario di Stato: cosa ha fatto Tillerson per risolvere la crisi con la Corea del Nord, arginare la crescita della Cina, accertare eventuali interferenza russe nella vita democratica americana, stabilizzare la Siria e l’Iraq? La risposta a tutti questi interrogativi spetterebbe al presidente Trump.

sanzioni, Tillerson

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