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Nel 1992 lo psicologo Paolo Legrenzi tentò un esperimento che diede un esito inaspettato. Studiando la mimica facciale dei vincitori di medaglie alle Olimpiadi e isolandone le espressioni si accorse che il grado di felicità non ricalcava l’ordine di comparsa sul podio. Il vincitore della medaglia d’argento, in particolare, sembrava più rattristato per il successo sfumato che per il prestigioso piazzamento conseguito; così a godersela di più, oltre al primo, ovviamente, era il terzo. L’orrore del secondo posto, del resto, è una legge che non vale solo per lo sport, ma un po’ per tutte le attività umane. E la politica men che mai ne è immune. Ricordate Giulio Cesare? Meglio primo in un piccolo villaggio che secondo a Roma. Ecco.

Nel suo ultimo saggio (“Nel paese dei diseguali”, Egea) Dario Di Vico, giornalista ed editorialista del Corriere della Sera, usa a mò di esempio l’esperimento di Legrenzi per spiegare ciò che avviene in Italia e per chiarire i contorni della “geopolitica delle emozioni” messa in moto dalla crisi. Il fenomeno della deprivazione relativa su cui Di Vico si interroga ha in effetti molto a che fare con lo stato d’animo di chi avverte la sua condizione come ingiusta, di chi pensa che qualcuno o qualcosa, in genere un’entità di cui non riesce a decifrare il vero volto, lo ha privato di ciò che gli spetta di diritto. Dall’orrore del secondo posto nascono i sentimenti di ribellione e sfiducia che alimentano la versione italiana di un populismo che negli ultimi anni ha infettato, con gradi diversi di pericolosità, l’Europa intera.

Di Vico legge il tema della diseguaglianza attraverso gli strumenti dell’analisi sociologica ed economica, anche se il filo conduttore resta sempre il racconto giornalistico. Rifuggendo dalle facili scorciatoie della semplificazione cui i media indulgono volentieri, si sobbarca la fatica di penetrare la complessità del paesaggio sociale che ci circonda: l’esatto contrario di quel che ci propinano quotidianamente un’informazione ed una politica avvezze all’urlo più che al ragionamento.

Di questo scollamento è paradigmatico lo scarso rilievo che viene dato a questioni che dovrebbero stare in permanenza sotto i riflettori e che invece di rado compaiono nel discorso pubblico. È il caso, tra i tanti, della povertà minorile, che Di Vico annovera giustamente tra i tabù di cui si fa fatica a parlare, un tema che la nostra società tende a confinare nel rimosso collettivo, forse per un inconscio senso di colpa, forse perché obbliga a confrontarsi con altre ferite dolorose: la crisi demografica, il senso di vuoto culturale che si respira un po’ ovunque, la difficoltà di gestire le ondate migratorie. In un paese che resta pur sempre la seconda potenza industriale europea 1,3 milioni di bambini vivono in uno stato di povertà assoluta. In termini di deprivazione – lo ha messo nero su bianco l’Istat nel 2016 – quella dei minori è la categoria ha pagato il prezzo più alto alla crisi. Questo mentre la nostra spesa sociale resta tutta concentrata sulla tutela della vecchiaia (nel 2014 il 14% del Pil). Dev’esserci un nesso tra le due cose, ed in effetti c’é. Ma si preferisce parlare d’altro.

Nell’analisi di Di Vico l’emergere delle nuove diseguaglianze si innesta sul tronco degli antichi mali italiani. La crisi ha spinto il Sud ancora più indietro e ne ha aggravato la tendenza a rifugiarsi in una sub-ideologia meridionalista statica, incapace di comprendere le reali necessità dei territori di cui si erge ad interprete. Fa da contraltare la mai risolta “questione settentrionale” scoperchiata dalla Lega di Bossi agli albori degli anni Novanta.

Il legame tra economia e territorio, tema che costituisce il fil rouge di tanti suoi interventi sul Corriere, è determinante anche ai fini della comprensione delle nuove diseguaglianze. La loro distribuzione sui diversi territori, si potrebbe dire, è sempre più molecolare; a volte è perfino impossibile darne una lettura univoca. Laddove una presenza apre un vulnus, come nel caso delle aziende cinesi di pronto moda a Prato, altrove rappresenta una ricchezza: come a Milano, dove gli imprenditori cinesi riuniti in Associna si fanno largo, oltre che nella moda e nel design, nella considerazione della società circostante. La diseguaglianza non connota inoltre solo i rapporti tra le persone e le famiglie. E’ un tratto distintivo anche della nuova dimensione in cui si trovano ad operare le imprese, a cominciare dalle Pmi.

Di Vico nota che il 20% delle piccole e medie imprese si è posizionata correttamente sul versante dell’export: sono le imprese che fanno da lepre, piccole e agili, ma in grado di competere e rafforzare il loro ruolo dentro le “catene globali del valore”. L’altro 60% è a metà del guado: non è ancora chiaro se riuscirà ad agganciare la locomotiva di testa o se verrà risucchiato in fondo al convoglio, dove fatica e sbuffa il restante 20%, sempre in pericolo di sganciarsi.

È in questo quadro che va inserita anche la mutazione genetica di cui è vittima il rapporto tra banche e territorio. Una volta i direttori conoscevano personalmente gli imprenditori e con loro costruivano una banca dati delle performance aziendali. Oggi assistiamo alla fine di quel localismo bancario, di cui le vicende delle due banche venete (Popolare di Vicenza e Veneto Banca) finite tra le braccia di Intesa rappresentano il mesto crepuscolo. Tutto cambia, cambia anche la classe operaia. Un tempo monolitica, oggi si presenta decisamente frammentata. Non è una novità degli ultimi anni, nelle fabbriche la fine delle ideologie ha mandato in soffitta la coscienza di classe. Restano gli operai. Ma la distanza che li separa l’uno dall’altro ne fa ormai qualcosa di culturalmente e antropologicamente diverso dall’immagine che ne abbiamo avuto per decenni. Di Vico cita il sociologo Antonio Schizzerotto, che ha riclassificato il mondo del lavoro in fabbrica individuando “tre classi operaie”.

La prima è quella degli operai manual-cognitivi, avanguardia del Lavoro 4.0, gente che guadagna 1.500 euro al mese ma maneggia macchinari da 300 milioni. Rappresentano una “evoluzione della specie” di cui finora solo qualche pioniere s’è accorto. E qui Di Vico cita la Fim e il suo segretario Marco Bentivogli.

I metalmeccanici non si oppongono a questa innovazione perché sanno che dovranno governare il cambiamento radicale dell’esperienza operaia e della sua relazione con l’organizzazione sindacale. Il contributo del sindacato è infatti fondamentale per realizzare l’upgranding di cui la cultura industriale italiana ha bisogno. La strada da fare però è ancora lunga.

Questa “prima classe operaia” stenta ancora a sviluppare un profilo riconoscibile, alcune scorie ideologiche restano difficili da smaltire, e per il resto manca ancora di un compiuto sistema di regole sul quale appoggiarsi. Ragion per cui Di Vico torna a citare Bentivogli e la sua battaglia per superare un inquadramento professionale che risale al contratto del 1973.

La “seconda classe operaia”, invece, vive ancora nella realtà “fordista”. Si tratta perlopiù di addetti alle linee di montaggio che convivono con vincoli organizzativi rigidi in un ambiente altrettanto rigido, dove ogni discontinuità organizzativa e di orario va negoziata (e poi in caso monetizzata).

La “terza classe operaia” coincide con il nuovo proletariato dei servizi, che sta fuori gli stabilimenti produttivi, in larga parte “facchini della logistica”. Detto per inciso, tra le poche cose che accomunano queste tre classi operaie c’è il divorzio con la sinistra.

È una storia che non riguarda solo l’Italia, ma si inscrive in quel generale processo di mutamento della divisione internazionale del lavoro che nel giro di pochi anni (secondo l’economista Milanovic ed il suo famoso grafico dell’elefante appena 20, quelli compresi tra il 1988 e il 2008) ha rivoluzionato le geo-economia mondiale (e ora sta ridisegnando i contorni della geopolitica). La crescita nei paesi di quello che un tempo definivamo Terzo Mondo ha significativamente innalzato il tenore di vita di una parte delle loro popolazioni. Ma ha anche prodotto un arretramento della classe media in tutto l’Occidente, con un corollario di nuove diseguaglianze, ma anche di nuove aspettative, che facciamo fatica a decodificare. Il libro di Di Vico merita di essere letto proprio perché rende meno pesante questa fatica.

Lunedi 26 febbraio alle ore 18 il libro sarà presentato al Circolo dei lettori a Torino, con Arnaldo Bagnasco, sociologo, Umberto La Rocca, giornalista e Bruno Manghi, sociologo.

Il 10 marzo invece alle 19.30 a Milano , presso la fiera del libro che si terrà al MiCo (dall’8 al 12 marzo) insieme all’autore interverranno il Segretario generale della Fim Cisl Marco Bentivogli e Tommaso Nannicini, economista , già consigliere economico col governo Renzi e sottosegretario alla presidenza del consiglio dei Ministri.

Le nuove diseguaglianze e noi. Perché l'economia non dice tutto

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