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Da tempo, all’interno dell’Unione europea, svariati paesi premono per un cambio di rotta nei confronti del regime di Bashar al-Assad in Siria – con cui quasi tutti i paesi UE (tranne la Repubblica Ceca) avevano sospeso le relazioni diplomatiche dal 2011, dopo la brutale repressione delle proteste popolari da parte delle forze affiliate al regime. Negli scorsi giorni, sono emersi due nuovi sviluppi al riguardo. Innanzitutto, il ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani ha annunciato la nomina di un ambasciatore a Damasco, Stefano Ravagnan (attuale Inviato Speciale per la Siria). Inoltre, 8 paesi dell’Unione europea (Austria, Cipro, Repubblica Ceca, Grecia, Croazia, Italia, Slovenia, Slovacchia) hanno firmato una lettera indirizzata all’Alto Rappresentante UE Josep Borrell, esortandolo a riconsiderare la Strategia dell’UE per la Siria risalente al 2017, che si basa su tre “linee rosse”: no alla normalizzazione con Assad, no alla revoca delle sanzioni e no alla ricostruzione in mancanza di chiari progressi nel processo politico. Il blocco di paesi europei che appoggia un riavvicinamento con Assad auspica che ciò possa portare all’uscita dall’attuale situazione di stallo e a possibili risvolti positivi nella crisi siriana – tra cui una maggiore influenza politica da parte dei paesi in questione, un miglioramento delle condizioni umanitarie e il graduale rientro dei rifugiati. Tuttavia, ciò che emerge dalla realtà sul campo – nonché dall’esperienza dei Paesi arabi che hanno già percorso la via della normalizzazione, senza ottenere risultati significativi – suggerisce scenari ben più pessimistici.

Nel percorso di normalizzazione avviato dai paesi arabi, un punto centrale era l’auspicio che Damasco creasse le condizioni per il rimpatrio sicuro, volontario e dignitoso dei rifugiati siriani; ma tuttora, a un anno di distanza dalla riammissione di Assad nella Lega araba, in Siria non vi sono le condizioni per il ritorno in sicurezza dei rifugiati, come dimostrato dai continui esodi di massa. Si può dire anzi che i siriani stanno votando “con i propri piedi”: nonostante Assad cerchi di presentare le regioni sotto il proprio controllo come zone stabili e sicure per la popolazione, sempre più persone decidono di andarsene, dirigendosi verso le aree controllate dall’opposizione armata, oppure abbandonando completamente il paese. L’aumento della popolazione nelle aree sotto il controllo delle forze ribelli ben illustra questa tendenza: David Carden, vice coordinatore umanitario regionale ONU per la crisi siriana, ha affermato che la popolazione in queste aree è salita a 5,1 milioni di persone – e le ONG siriane ritengono che la cifra effettiva sia ancora più elevata. Una delle autrici di questo pezzo ha effettuato diverse visite di ricerca sul campo nel nord della Siria, osservando di persona tali dinamiche di migrazione. Nell’ultima visita sul campo, ha osservato anche che un numero crescente di siriani di fede cristiana (inizialmente fuggiti dall’ISIS) ora sta lasciando Aleppo, sotto il controllo di Assad, per tornare nei propri villaggi nella provincia di Idlib, controllati dal gruppo ribelle islamista Hayat Tahrir al-Sham: secondo un sacerdote della chiesa cattolica di Ya’qoubiya, a ovest di Idlib, “Aleppo è invivibile”.

Per quanto riguarda le dinamiche di emigrazione, un altro caso degno di nota è quello di Daraa, provincia meridionale della Siria tornata sotto il controllo di Damasco nel 2018. Anche qui, l’esodo della popolazione non è cessato: i flussi di emigrazione e spostamento verso l’esterno sono tre volte superiori rispetto ai rientri permanenti; solamente nel corso del 2023, 17.000 persone hanno abbandonato questa provincia. Circa un anno fa, su un’imbarcazione affondata al largo della Grecia, vi erano 120 persone di origine siriana – la maggior parte dei quali proveniva dal sud della Siria, e in particolare proprio dalla provincia diDaraa. Più recentemente, lo scorso 8 giugno, 12 siriani sono morti nel deserto algerino, nel tentativo di raggiungere le coste europee dalla Libia; provenivano tutti da aree della Siria controllate dal regime .

Inoltre, i rifugiati che accettano di tornare nelle aree sotto il controllo di Assad in Siria sono esposti a significativi rischi: nonostante le garanzie di sicurezza nominalmente fornite da Damasco, possono essere arrestati, detenuti e persino uccisi, come documentato da varie organizzazioni tra cui Human Rights Watche la Rete siriana per i diritti umani. Dall’inizio del 2014 sino allo scorso giugno, sono stati documentati almeno 4.714 arresti di rifugiati rientrati dall’estero e/o di sfollati interni, da parte delleforze affiliate al regime. Nell’ultimo anno e mezzo – ossia nel periodo compreso tra inizio 2022 e lo scorso giugno – 279 rifugiati rientrati dall’estero sono stati arrestati arbitrariamente o detenuti; 6 torturati e uccisi. Più in generale, a fronte della politica di normalizzazione promossa dalla Lega araba, Damasco non ha effettuato concessioni, né ha intrapreso riforme. Con la persistenza di pratiche violente e di sistematiche violazioni dei diritti umani, è ragionevole pensare che i siriani continueranno ad abbandonare sia le aree controllate dal regime, sia il paese. In questo contesto, un processo di normalizzazione da parte europea rischia non solodi non portare a risultati concreti, ma anche di esacerbare tanteproblematiche già esistenti. La strada per la stabilità e per una genuina pace duratura in Siria non risiede nella legittimazione del regime; bensì nella risposta ai bisogni e la salvaguardia dei diritti di tutti i sirianiin particolare, di coloro che sono stati sfollati e privati dei loro diritti a causa del conflitto armato. In ultima analisi, ciò richiederà una soluzione politica completa che affronti le cause profonde del conflitto e apra la strada a una reale riconciliazione ma ciò non accadrà finché Assad rimarrà al potere.

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