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A Roma ci si interroga da tempo su quale sia la posizione dell’amministrazione Usa sulla Libia, priorità numero uno per l’Italia sia in termini di sicurezza nazionale che in termini di proiezione strategica verso il continente africano.

Nel tentativo di rispondere a questa domanda è utile partire da un recente approfondimento del New York Times, che denota come sul punto non vi sia ancora una linea precisa da parte della Casa Bianca e che si stia assistendo proprio in questi mesi ad una serie di circostanze, interne ed esterne al Paese, che contribuiscono a ridefinire la stessa posizione di Donald Trump sull’argomento.

Nella comunità dei think tank di Washington a prevalere è la percezione secondo cui la stabilizzazione dell’area non sia per nulla considerata una priorità nella politica estera e di sicurezza statunitense. Questo perchè, come spesso si suole ripetere in meeting e conferenze, gli americani “considerano la questione di stretta pertinenza europea” ed il vero motivo di preoccupazione per cui si affronta l’argomento è quello del terrorismo.

Eppure, la sensibilità e la competenza di una parte significativa della leadership americana, a partire dal Pentagono e dalla comunità intelligence, spingono ad analizzare il tema da una prospettiva meno distratta e semplicistica.

È del marzo scorso, ad esempio, la notizia di un incontro a Capitol Hill tra alcuni membri del Congresso ed il gen. Thomas D. Waldhauser, comandante dello US Africa Command, nel corso del quale sono arrivati al pettine molti dei nodi più delicati che ingarbugliano lo scenario libico. Come segnalato dal New York Times, il generale ha usato in quell’occasione parole assai chiare per richiamare l’attenzione dei suoi interlocutori sull’argomento: “L’instabilità in Libia e in Nord Africa potrebbe diventare la più grande minaccia per gli Stati Uniti ed i loro alleati nel breve – medio termine”.

Tra le maggiori ragioni di preoccupazione illustrate ai membri del Congresso non solo la pervasività dei gruppi terroristici o la frammentazione interna tra Tripolitania, Cirenaica e Fezzan o ancora il fenomeno dei flussi migratori che insanguinano il Mediterraneo. In cima alla classifica delle minacce una nuova posizione è riconosciuta all’irruzione della Russia di Vladimir Putin nelle complicate dinamiche di potere tra gruppi e milizie che si contendono la supremazia sul vasto territorio libico. La notizia allarmante che aveva giustificato l’incontro (non è affatto comune che un alto ufficiale in servizio attivo si rechi di persona a Capitol Hill) risaliva a pochi giorni prima, quando una portaerei di Mosca era entrata in acque libiche e ospitato a bordo il gen. Khalifa Haftar, principale attore in Cirenaica, la cui sfera di controllo territoriale si oppone a quella del governo di Accordo Nazionale di Fāyez Muṣṭafā al-Sarrāj.

Secondo alcune fonti dell’intelligence Usa durante la visita di Haftar sarebbe stata predisposta anche una linea sicura per una telefonata tra il generale ed il ministro della Difesa russo. Questo dato, sommato alle numerose altre espressioni di interesse alla questione libica da parte del Cremlino, spinge l’amministrazione a riflettere con maggiore attenzione su quanto sta accadendo in quei territori. Non è una novità che le forze militari e l’intelligence di Mosca cerchino un ruolo sempre più attivo nell’area del conflitto e non si esclude l’ipotesi della fornitura di armi alla fazione di Haftar così come la possibilità dell’invio di istruttori per preparare le milizie in loco.

Rispetto a questo scenario emerge una posizione sino ad ora più volatile da parte degli Stati Uniti di Donald Trump. Gli analisti di settore, che hanno letteralmente radiografato l’evoluzione della posizione presidenziale nel corso del tempo, non hanno perso l’occasione di sottolineare la sostanziale incoerenza tra gli anni precedenti alla sua candidatura e quelli successivi. Nel 2011, anno dell’intervento militare per destituire Mu’ammar Gheddafi, Trump affermava: “E’ il momento di partire. Dobbiamo fermare questo dittatore. Sarà un’operazione breve e facile. Possiamo farlo chirurgicamente e così salvare il popolo libico”. Le dichiarazioni verosimilmente favorevoli alla linea interventista sarebbero state messe da parte con la discesa in campo, quando il fallimento della ricostruzione libica ha coinciso per Trump con il fallimento della politica estera di Barack Obama e Hillary Clinton.

Sulle posizioni assai dure e oltranziste della campagna elettorale e dei primi mesi di amministrazione avrebbe pesato parecchio l’influenza di Steve Bannon, secondo il quale il problema libico poteva essere affrontato tramite l’invio di contractor privati al fine di garantire la sicurezza fisica degli americani nel Paese e null’altro. La strategia di disinteresse fatta propria dall’ex stratega della Casa Bianca era stata sin dall’inizio bilanciata dalla presa di posizione assai più equilibrata e realistica del Segretario della Difesa, James Mattis, che avrebbe considerato da subito lo scenario libico come un rischiosissimo elemento di destabilizzazione per l’intero Mediterraneo, potenzialmente in grado di causare seri problemi (legati al terrorismo) anche agli Stati Uniti. La visione del Pentagono, che ha conservato la propria coerenza anche nelle riflessioni del gen. Waldhauser, si è gradualmente consolidata e ha fatto breccia nella posizione di Trump anche grazie agli alert provenienti dai briefing del direttore della Cia, Mike Pompeo, da sempre discussi insieme al National Security Advisor, H.R. McMaster.

Ad oggi, l’interventismo russo provoca nuove preoccupazioni agli occhi degli americani poiché celerebbe un disegno non meramente circoscritto alle operazioni militari ma piuttosto rivolto ad assecondare la volontà di Putin di far sentire la presenza russa in una regione del mondo a cui ha sempre ambito senza però poter esprimere una vera e propria manifestazione di potenza. La Libia potrebbe essere, in parole povere, la via per il Mediterraneo occidentale, senza considerare gli innumerevoli risvolti geopolitici relativi al mondo dell’energia e l’accesso al Sahel.

Sulla base di tali considerazioni, questo momento risulta essere particolarmente decisivo per le sorti dell’impegno americano in Libia. Il recente incontro privato a Washington tra Donald Trump e Serraj, leader del Governo di Accordo Nazionale, è stato considerato assai positivo e benaugurante da parte degli osservatori internazionali che sperano in una risoluzione del caos libico. Ancora, dall’uscita di Steve Bannon dall’amministrazione sono stati diversi i segnali di interessamento concreto dalle autorità americane, a partire dal Pentagono. Basti pensare ai bombardamenti tramite droni indirizzati contro campi di addestramento terroristici nel settembre dell’anno scorso o ancora alla cattura nel mese di ottobre di un uomo collegato alle operazioni dei ribelli che nel 2012 attaccarono il consolato americano di Bengasi, provocando la morte dell’ambasciatore Chris Stevens.

Rispetto, dunque, alle due linee contrapposte del “fuori dalla Libia” e di “America prima forza” sembra oggi prevalere la linea della concretezza. Una linea attenta e scrupolosa, nella quale primeggiano le operazioni rispetto ai proclami. Il dato non può che essere positivo per Roma poiché apre la strada ad importanti spazi di collaborazione, già ottima soprattutto con il Pentagono, e ad una possibile leadership italiana nella gestione del processo di stabilizzazione del Paese.

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